 Locandina.
Locandina.
GIOVANNI BRUZZI
Giovanni Bruzzi sembra un atleta:
aitante, asciutto e slanciato, il suo sguardo acuto e i suoi
lineamenti decisi e volitivi rivelano subito, di primo acchito,
una fermezza di carattere e una forza di volontà a tutta prova,
che si riscontrano pure nel suo lavoro. E' pittore: lo fa per
vocazione, con un grande impegno anche morale. Lo decise quando
era ancora un ragazzo, senza iattanza ma anche senza lasciarsi
intimidire dai grandi ricordi di famiglia, dal nome di Stefano
Bruzzi, suo antenato, che nell'Ottocento aveva fatto onore alla
pittura italiana. Giovanni Bruzzi procede con profonda
convinzione, fiso alla sua meta, sempre guardingo e sospettoso,
conscio dei tanti trabocchetti che un artista può incontrare, e
senza lasciarsi perciò incantare dalle tante sirene che in buona
o in mala fede si affollano e pullulano oggi lungo il cammino che
un artista deve percorrere. Per fare il pittore, gli occorse un
deciso atto di forza contro la iniziale volontà della famiglia,
che avrebbe voluto vederlo incamminarsi in ben altra strada che
non quella, tanto malsicura e difficile, dell'arte. Ebbe coraggio
e si buttò subito a studiare con fermezza di propositi, a
Firenze, dedicandosi con assiduità a cercare l'impadronirsi del
mestiere, che è indispensabile eppur tanto difficile per un
pittore. Si pose a studiare severamente, in modo attento e
impegnativo, tenendo di mira quelle che sono le componenti
fondamentali della sua personalità, il senso compositivo e una
rigorosa forza di sintesi. Non contento di sé, affrontò però
successivamente un soggiorno di qualche anno a Parigi, che è
stata sempre la città sognata da ogni artista del nostro tempo,
per perfezionarsi e approfondirsi sempre di più nel suo lavoro,
per leggere meglio entro di sé. Egli sapeva bene che il suo
soggiorno parigino non sarebbe stato piacevole e dorato come per
tanti altri: fu infatti un soggiorno duro e difficile per i pochi
mezzi che aveva a disposizione, per i tanti sacrifici e le tante
rinunce che dovette affrontare. Ma lo affrontò ugualmente con
entusiasmo, con una segreta aspirazione di <<arrivare>>
e con la gioia di vivere in mezzo ad artisti di fama e
provenienti da ogni parte del mondo, di poter ammirare e studiare
tanta pittura moderna nei musei parigini, di poter vivere in un
ambiente più libero e aperto che non fosse quello della sua
città. Il suo soggiorno a Parigi, affrontato con scarsi mezzi ma
con tante speranze, fu quindi un altro atto veramente di
coraggio, dopo quello della scelta della pittura come sua
attività. Il ritorno a Firenze, in un ambiente ideale per un
artista, in una città più raccolta e più confacente alla
riflessione e alla meditazione, anche se meno mossa negli affari
e nel creare la fama di un artista, ha rappresentato il momento
del raccoglimento, il momento di tirare le somme del suo
procedere, di ripensare quanto aveva visto, conosciuto e fatto a
Parigi e della scelta definitiva della via da seguire nel bosco
intricato dell'arte. A Parigi aveva visto e conosciuto molto, ma
non aveva perduto i caratteri peculiari della sua personalità e
del suo operare. Era già un bel fatto. Lì aveva arricchito,
sì, i suoi mezzi espressivi, ma era rimasto un puro, era rimasto
fondamentalmente se stesso: non aveva rinunciato al suo disegnare
per sintesi con linee sicure e decise, alle sue campiture fatte
di tonalità vivaci e pure. Comunque la maturazione era avvenuta
in un'atmosfera che innegabilmente aveva giovato alla sua
formazione ed al suo affinamento. I frutti si sono visti. La
recente mostra (è del '73) dedicata alle <<insegne>>,
da lui presentata a Firenze e successivamente a Milano e a Roma,
ci ha mostrato un Bruzzi che, pur sempre conciso e sintetico, si
è addolcito nelle sue visioni a volte ironiche, a volte
nostalgiche, ed ha arricchito la sua poetica. Come allora, anche
nella presente mostra, ampia e che denuncia davvero la piena
maturità dell'artista, il Bruzzi affronta un tema preciso, un
argomento unitario; invece delle <<insegne>>,
questa volta sono i <<cereus>>
a costituire il leit-motif di tutta la esposizione, dal primo
all'ultimo quadro. Si tratta di opere tutte recentissime: il
Bruzzi vi ha inserito solo il capostipite dei suoi <<cereus>>,
un lavoro che risale al 1971, un <<cereus>>
stagliato su di un fondo di prato e di cielo. E proprio questo
quadro, pur affascinante e risolto con capacità, ci dà la
misura, paragonato con i <<cereus>>
più recenti, del lungo percorso compiuto da quest'ancor giovane
artista fiorentino: un percorso fatto di seria meditazione su di
un tema, che è stato risolto in termini di buona pittura.
Giovanni Bruzzi affronta infatti con questi <<cereus>>
un argomento di grande attualità e che egli avverte in tutta la
sua angosciosa drammaticità. Egli guarda alla natura con pietà,
come compartecipe della tragedia che accade e che tutti
coinvolge. I suoi <<cereus>>
sono strutture in lotta con la corruzione, esposte a guasti
irreparabili. Sono come emblemi di catastrofe, nei quali non
esistono più fronti fra flora e fauna. Questi <<cereus>>,
così fantasiosi e lussureggianti, così ridondanti e floridi pur
nel loro rigore formale, sono piante mostro che divengono
emblematiche e si stagliano su fondi di colore aspro e urtante,
su fondi di colori chimici e artificiali. Le piante assumono un
aspetto antropomorfo, l'aspetto di personaggi che hanno voglia di
vivere, anche se insidiati e minacciati nella loro stessa
esistenza. La pianta rappresenta per il Bruzzi la natura ancora
integra, ancora forte che oppone ogni possibile resistenza. Il
dramma ecologico è così affermato dal contrasto pianta-fondo:
il mondo vegetale, puro, è infatti contrapposto al suo nemico,
al colore chimico, stridente e aggressivo. La pianta, pertanto,
nei quadri del Bruzzi non vuole essere solo un esteriore,
elegante motivo decorativo, ma è un motivo vivo, quasi
antropomorfico che l'artista ha appunto la capacità di far
divenire personaggio. I quadri assumono pertanto un valore
emblematico a livello di simbolo. Spogliate così di ogni residuo
naturalistico esse hanno il potere di condurre la fantasia del
fruitore verso confini spaziosi ed ignoti, di ciò che si
nasconde al di là della fantasia dell'artista e delle sue
operazioni mentali; e in un modo che non ha nulla di
intellettualistico e che si risolve sempre nel far pittura. Da
queste opere, nelle quali traspare una sapienza formale e tecnica
raffinata, il Bruzzi fa partire un messaggio che implica tutto il
nostro modo di essere e di vivere. Esaltando la forma oggettiva
dei suoi modelli, propone perentoriamente i suoi simboli e
assume, pur nei valori poetici della sua denuncia, quelli di una
polemica sempre più attuale: la riaffermazione della bellezza
della natura e un angoscioso grido di allarme per la distruzione
da cui è di continuo minacciata.
Armando Nocentini
(Presentazione mostra personale
"Galleria Il Fiorino", Firenze 1975)
 Cereus (1971, cm. 70x90, olio su tela).
 Cereus (1973, cm. 70x90, olio su tela).
LA SERIE DEI "CEREUS" DI
GIOVANNI BRUZZI Il visitatore che entrerà nella
sala dove sono esposti i <<Cereus>>
di Giovanni Bruzzi, si domanderà, immagino, se quelle che vede
sono vere piante, o cos'altro mai sono. Certo non potrà evitare
un senso di disagio o inquietudine di fronte a quelle
emblematiche forme monocrome, varianti dal giallo al verde lacca,
campite su uno sfondo d'un colore piatto ed estraniante. E' come
se quello sfondo e la forma vegetale che vi si staglia
appartenessero a due mondi diversi e opposti; due nature
obbedienti a leggi e principi che si escludono a vicenda,
obbligate ad una convivenza forzosa, ostile. A ben guardarle
quelle forme non sono poi così fisse ed allucinate come appaiono
a prima vista. Il loro corpo - si può chiamare così il verde
carnoso di cui sono composte?- si contrae, trascolora, s'attorce,
s'incupisce e svaria, come quello di una medusa, di un polpo, di
un mollusco in agonia. E allora sembra che soffrano: ma di che? A
volte assumono aspetti antropomorfi, fallici o uterini, totemici;
o paiono armarsi in difesa, come certi animali minacciati, che
chiamano tutte le loro forze a raccolta, e sfoderano aculei,
artigli e zanne: le teste diventano elmi con creste e punte, i
corpi metallici ordigni bullonati, trappole mortali pronte a
scattare... per difendersi da chi? Ci sono animali e piante che
un ambiente ostile costringe ad assumere, per sopravvivere, forme
mostruose. Così è accaduto, pare, ai pesci che vivono nel lago
Erie, uno dei più inquinati della terra. Dev'essere accaduta la
stessa cosa ai <<Cereus>>
di Giovanni Bruzzi, e sta forse accadendo anche a noi, gli
uomini. E così questi verdi ispidi simboli sarebbero forme
dell'inconscio ormai dotate di vita autonoma? Certamente non più
nature morte, come le prime piante grasse dipinte da Bruzzi, gli
antenati di questi <<Cereus>>;
non più esseri o oggetti riconoscibili, ma <<cose
dell'altro mondo>>. Un mondo estraneo
all'uomo e alla sua biologia, anche se riflette le sue ossessioni
e le sue paure, un mondo <<altro>>
remoto e irraggiungibile. Ma è bene fermare a questo punto le
supposizioni e le illazioni del nostro visitatore, per
ricordargli che se di ossessioni si tratta, sono pur sempre,
queste, ossessioni pittoriche. Come se attraverso la pittura, e
solo attraverso la pittura, Bruzzi volesse esorcizzare i propri
incubi e quelli collettivi. E così la lezione dei surrealisti da
lui appresa a Parigi ai suoi inizi, lo studio di De Chirico e
Savinio nelle loro frangie più bizzarre, l'impressione
comunicatagli dalle tele di Ernst e di Tanguy, gli hanno fatto
trovare nei <<Cereus>>,
piante-simbolo, il pretesto necessario per rinnovare, con mezzi
propri l'eterna scommessa di ogni pittore contemporaneo: quella
di sconfiggere, forzandola caparbiamente in tutti i modi
possibili, l'impenetrabilità del reale.
Raffaele La Capria
(Presentazione mostra personale
"Galleria Il Fiorino", Firenze 1975)
 Cereus (1975, cm. 70x90, olio su tela).
STORIA DI UN'IMMAGINE IN BRUZZI Funzione della critica e, per
estensione, di una presentazione - che nel suo aspetto più vero
è un atto critico - ci sembra essere quella di <<mediazione>>
tra l'artista e il lettore; in sintesi un'operazione
interpretativa per un adeguamento di chi vede al significato
estetico dell'immagine in visione. O d'introduzione ad un
linguaggio che in arte risulta sempre <<cifrato>>;
perchè l'artista - citiamo un grande poeta -, cogliendo della
realtà ciò che l'uomo comune non percepisce, è costretto ad
usare un linguaggio adeguato alle necessità dell'intuizione e
quindi ignoto nella sua intima essenza all'osservatore comune.
Una <<crittografia>>
inevitabile anche quando l'immagine rimanda ad oggetti e
situazioni ordinarie, perchè appunto fatta di segni, forme,
simboli unici del mondo personale dell'artista, anche per lui
sempre reinventabili. in questo senso infine il presentatore è
un traduttore. E ciò non per sublimi capacità ricettive, ma per
suo esercizio costante sul linguaggio della pittura che è sempre
un fatto mentale e non calco di oggetti; quindi linguaggio da
decifrare. Con questa premessa ci pare di poter affrontare più
agevolmente il discorso sul tema che forma la sostanza della
presente rassegna di Bruzzi. I <<Cereus>>
occupano uno spazio operativo di oltre sette anni: dal 1971 ad
oggi. Quale ne possa apparire il significato, è detto da una
già consistente sedimentazione critica, che vi ha ravvisato
emblemi, personaggi, forme antropomorfiche, simboli totemici,
sacrali, mostri pronti ad aggredirci. Una pluralità di
interpretazioni che torna certamente a credito della ampiezza
comunicativa delle immagini. Anche per noi, come per altri che ci
hanno preceduto nel discorso, certamente simboliche: proiezione
figurale di un proprio sentire di fronte al tema ispirativo - sia
esso di umana simpatia con l'oggetto, di recupero degli elementi
naturalistici o di denunce, angosce, timori. Emblemi, dunque; ma
fatti forme, realtà estetiche, valori d'arte innanzi tutto. E'
in questo senso, perseguito in primo luogo da Bruzzi, che
intendiamo condurre l'analisi: secondo un percorso visivo
tracciato dalla stessa dislocazione delle tele, tale da fungere,
a suo modo, da filo d'Arianna nell'esplorare i vari momenti della
vita sentimentale e fantastica dell'artista. Attraverso un
processo di scavo che, partendo dalle strutture in configurazione
esterna, seppure intenzionalmente simbolica, approda nella
stesura definitiva ad una acuta interiorizzazione del motivo. Si
vedano, quindi, i lavori del primo triennio (1971-73).Ancora un
aggancio naturalistico, descrittivo, chiaramente palese; con
tutti gli annessi di un'immagine pazientemente ritratta nei suoi
elementi caratterizzanti (areole, costole, aculei ecc...);
sebbene l'aspetto naturalistico venga proiettato verso spunti
analogici, simbolici, nella ricerca evidente di strutture
allusive: totemiche, stalattitiche, antropomorfiche. Nell'interno
delle pieghe la definizione del colore appare ancora compatta,
unita; l'interesse grafico prevalendo sui valori cromatici. Nel
biennio successivo (1974-75) l'aspetto formale si modifica
organicamente. Spariscono o si riducono sensibilmente i
particolari naturalistici, la struttura verticale si abbrevia per
una maggiore articolazione. L'immagine acquista in ampiezza, in
spessore visivo. Le zone intracostolari si fanno più vibranti,
morbide, sensibilizzate nel colore. Nasce l'organismo nella sua
pulsante energia, l'oggetto reso sensitivo. Il cromatismo dei
fondi, prima impostato in prevalenza sul blu, si allarga nella
gamma (rosa, carminio, celeste, violetto). In conseguenza la
campitura precedente - quasi un fondale avulso dal contesto
dell'immagine, come un semplice piano di posa - entra ora in una
stretta interlocuzione con l'oggetto, con un effetto tonale
coinvolgente la visione in un unico plesso. Per accordo o per
contrasto, per consonanza o dissonanza; ma sempre in termini di
armonia pittorica. Scatta allora, simbolicamente, una sorta di
agonismo della pianta con l'ambiente, come a motivo di difesa, a
scopo di sopravvivenza. Di qui la ragione di un certo ritorno
dell'articolazione. I fondi assumono una precisa funzione
psicologica: a specchio di stati d'animo, di situazioni
interiori. Si accentua la sensibilizzazione degli scuri. Con una
simile situazione figurale si fa più consistente la
interiorizzazione dello spunto da cui è mossa la raffigurazione
dei <<cereus>>:
si accentua cioè l'idea di un'immaginaria lotta con l'esterno
ingaggiata in termini visibili di arroccamento, di
<<testudine>>, di aculei, di cuspidi. L'artista
perfeziona felicemente l'intenzione di umanizzare l'oggetto; lo
incalza infatti nella sua pressione di simbolo sempre più
significante, tanto da conferirgli la forma di emblema preciso
del comportamento umano, del vitalismo esistenziale. Nulla quindi
nei <<cereus>>
del diletto puramente riproduttivo dell'immagine naturalistica.
Oltre l'oggetto l'idea, e nell'idea l'artista: con il suo mondo,
la sua umana inquieta sensibilità. Infine il biennio più
recente del ciclo. Bruzzi entra ora nella sostanza dell'oggetto,
ne scruta capillarmente le fibre attraverso l'ingrandimento e
l'analisi delle sezioni. Con un'ottica ravvicinata, quasi un
taglio cinematografico, da <<particolare>>.
Con tutte le implicazioni che scaturiscono da tale
ravvicinamento: come la ulteriore eliminazione del fraseggio e
delle ridondanze a vantaggio della essenzialità della struttura,
che si fa più semplice, duttile, morbida tra le costolature. Una
struttura che invade più audacemente lo spazio visivo, assume
una posizione eccentrica, ricca di ombre, più drammatica.
Acquista con ciò sempre più energia l'aspetto soggettivo,
emozionale, anche se tuttora nel pieno controllo e dominio della
compagine. Linea e tonalità perfettamente interagiscono,
cospirando a realizzare pienamente l'interiorizzazione del tema.
La grafica si snoda in un <<bagno di
colore>> suggestivo, si intride di
tonalità intense, severe, qua e là quasi impercettibilmente
baluginanti, come di luci che affiorino tenuamente da un gorgo
profondo. Segni di un mondo intimo, presentimenti, avvisi di una
segreta apprensione. Maturità della forma in Bruzzi, e quindi
dell'idea: a seguito di un processo stilistico che ci auguriamo
di avere chiaramente illustrato.
Elvio Natali
(Presentazione mostra personale
"Galleria Giotto", Prato 1978)
 Manifesto.
 Manifesto.
FITOMORFISMO DI BRUZZI
TRE INDICAZIONI PER UNA LETTURA GLOBALE
Che la raffigurazione in arte sia e
sia stata spesso portatrice privilegiata di contenuti simbolici
lo sapevano di certo, e diremmo anche magistralmente, già gli
autori e gli esegeti dei tempi passati. Tranne quei casi - invero
assai rari, pure se a volte ingenuamente o maliziosamente
dichiarati per tali - in cui la rappresentazione non intenda
rimandare ad altro contenuto che non sia quello immediatamente
visibile, il <<topos>>
estetico si mostra solitamente assai problematico, quando non
addirittura ambiguo, elusivo o ingannevole. La metafora permea
quindi ed arricchisce di sé quasi ogni opera d'arte inducendo
così il riguardante ad una decodificazione e lettura spesso
alquanto complesse. Ne derivano pertanto polisignificazioni ed
ipersignificazioni sempre più ardue che, dalle aree del
suggerito, del sottinteso, del criptogrammatico - in una parola,
del metaforico - si sono estese, nella cultura recente, almeno ai
bordi dell'onirico, dell'inconscio, dell'intrapsichico. Ogni
esigenza di esplorazione e di fruizione globale deve dunque
puntualmente misurarsi con la polivalenza dell'evento estetico
che, vestendo contemporaneamente più abiti, riesce a volte a
sorprendere e a sconcertare anche il più smaliziato lettore o
analista. Così Giovanni Bruzzi, con questa serie dei <<Cereus>>
dà subito scacco al fruitore immergendolo, fin dai primissimi
approcci, in una situazione illusoria; allusiva ed ammiccante per
la fredda bellezza di ogni singola pianta, ma impenetrabile,
oscura e forse nemica per l'inquietante mistero sotteso a tanto
nitore formale. Il cereus è una cactacea che cresce nei deserti
più aridi dell'India, Brasile e Perù. Armata di aculei, ha
breve ed appariscente fioritura. Bruzzi ne dipinge la forma
visibile con certosina pazienza, scrutandone ogni rigonfiamento
ed ogni rientranza. L'infinita gamma di verdi e di gialli viene
composta in un'architettura emblematica che, nella
rappresentazione seriale, propone una sorta di saturazione delle
qualità vegetali: un fitomorfismo cui nulla sfugge delle mille e
mille pieghe segrete incise dalla natura sulla pelle rigonfia di
queste stranissime piante. Una vitalità quasi zoomorfa attorce
le foglie spiniformi, ora dilatandole in un disperato assalto
all'ambiente, ora arroccandole come in difesa contro un nemico
crudele e invisibile. La teratologia del pittore, a questo punto,
è già ben oltre ogni minuzioso descrittivismo botanico. Il <<Cereus>>
non è più soltanto una pianta bensì la sembianza araldica
prescelta da Bruzzi per la rappresentazione fantastica della sua
metafora di contenuto sociale. In sostanza quei cactus così
conturbanti siamo noi uomini, assediati dalle forze immani che
noi stessi abbiamo liberato e delle quali ormai rischiamo di
smarrire il controllo. Se passiamo però dal sociale al privato
l'emblema diviene ben più mostruoso e allarmante. La vitalità
incoercibile di questi vegetali carnosi sembra vitalizzare i più
feroci fantasmi del nostro inconscio turbato. Il groviglio di
verdi e di gialli, insinuante nei simboli erotici - <<fallici
o uterini>> - come scriveva Raffaele
La Capria, o pregno di un sensualismo perverso che s'agita sotto
l'ingannevole specchio di una calma e di una immutabilità
soltanto apparenti, esorcizza le pulsioni represse che il bisturi
del pittore enuclea dalle nostre rimozioni freudiane. Nascosta
dalle levigate ed immobili superfici dai mille toni del più
languido verde, la vita dei cereus esplode con inattese ed
imprevedibili fioriture, fantastiche nei colori smaglianti
dall'esistenza brevissima. Così anche per l'uomo la vita
interiore esplode a volte dietro l'imperscrutabile velo di uno
scontato conformismo sociale. Tutto questo Bruzzi l'ha certamente
compreso ed allora questi suoi delicatissimi <<Cereus>>
non possono risultare veramente capiti se la nostra fruizione non
percorre contemporaneamente almeno tre strade: quella formale,
quella sociale, quella intrapsichica.
Luigi Rucci
(Presentazione mostra personale
"Galleria La Sonda", L'Aquila 1979)
 Cereus (1977, cm. 80x100, olio su tela).
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