Tribute to Kenton, (1956, cm. 90x60, olio su tela).


Ritmo (Shelly Manne), (1957, cm. 160x70, olio su tela).


Tromba e batteria (Cool Jazz), (1957, cm. 170x100, olio su tela).

IL COLORE DEL SUONO

E' opportuno premettere che, così come rilevabile nel tracciato evolutivo di ogni forma d'arte, anche la storia del jazz è caratterizzata da momenti innovativi di pressochè totale invenzione che si discostano completamente da quanto era stato detto sino allora; quasi un voltar pagina per dare inizio ad una nuova, inedita esperienza . . . Il decennio a cavallo tra la metà degli anni quaranta e la metà degli anni cinquanta, rappresenta per la musica jazz, uno di questi particolari momenti: con l'avvento del Be-Bop nasce il jazz moderno che, seppur innestato su radici vetuste, si avvarrà di germogli dalle colorazioni completamente nuove e dai profumi del tutto inediti, per proiettarsi in una realtà espressiva di assoluta originalità. Non molti i seguaci, allora di tale astruso linguaggio ("chinese music" lo definiva ancora qualche anno fa un vecchio trombettista ebreo, ben noto alfiere della tradizione, Max Kaminski): uno sparuto gruppo di critici dalla mentalità aperta al nuovo ed una ristretta cerchia di appassionati, motivati più dalla curiosità e dal non conformismo, che da una precisa esigenza cognitiva. In quegli anni, non certo illuminati da una consapevolezza estetica in sintonia con i tempi, qualcuno prestava comunque orecchio a questo nuovo genere musicale con diverso approccio; è questo il fondale su cui si muoveva il pittore fiorentino Giovanni Bruzzi che, facendo tesoro della propria esperienza parigina degli anni '54, '56 e dal '60 in poi, aveva modo di penetrare sino in fondo quello che ai più appariva come un linguaggio esoterico ed astratto ma che, per il pittore, rappresentava invece materia viva su cui confrontare i propri stilemi espressivi, traendone segni e messaggi da trasferire nel proprio eloquio pittorico. L'artisticità del Bruzzi seppe captare immediatamente i valori vitalistici ed esistenziali della nuova proposta musicale, segnandone addirittura il tracciato evolutivo che, dalla matrice boppistica, lo portava a sottolineare, per fasi successive, i momenti dell'esperienza Progressiva, Cool e West-Coast, in ciò mostrando una maturità d'ascolto e di riflessione del tutto eccezionali per un artista che era e voleva essere soltanto: "uomo di pennello". Prima di lui, tra i pochi, Henri Matisse e Piet Mondrian (ma il primo incantato da sinuose linee in movimento ed il secondo legato al mito tradizionale del Boogie-Woogie), dopo di lui molti altri (a partire dai ritratti che Karel Appel fece a Dizzy Gillespie), però solo allora si dipanava, in una aristocratica solitudine, il filo della simbiosi artistica con cui Bruzzi andava intrecciando il suono al colore per fonderli in una creazione visiva uniforme e compiuta, perfetta sintesi di forma ed ispirazione in una risultante di raro vigore espressivo. La frequentazione del Bruzzi dell'iconografia jazzistica più qualificata di quegli anni (Shelly Manne e Stan Kenton) o, a ritroso, (Harry James, Sonny Stitt, Clifford Brown e tutti gli altri studi), ebbe un ruolo determinante nello stimolare il tratto figurativo dell'artista, che comunque rimaneva condizionato dall'esigenza di collocare il musicista in un'ambientazione del tutto atipica, in forza della natura propriamente astratta del fatto musicale (vedi la geometricità tutta scatti di tono che accompagna nel dipinto Ritmo la figura del batterista Manne o l'apocalittica scena surreale che, nel quadro Tribute to Kenton, pare inglobare l'immagine visionaria dell'orchestratore). In tali opere il protagonista dell'evento cessa di essere il personaggio evocato, ma è lo stesso fatto musicale che, proiettandosi dall'esterno in un crescendo tipicamente sonoro, si pone al centro dell'opera condizionandone l'intima rappresentazione in un coagulo materico di rara intensità (Kenton) o in geometrie schizoidi espresse in ritmico e balenante movimento (Manne). Ma il contatto diretto del pittore con i protagonisti della scena jazzistica a Parigi in quegli anni (il periodo revivalistico di Sidney Bechet si andava ormai esaurendo), attraverso l'ascolto dal vivo, al "Blue Note" e a "Le Caméléon" soprattutto, di musicisti come Kenny Clarke, Bud Powell, Jimmy Gourley, Lou Bennet, Franco Manzecchi e dei tanti altri strumentisti di contorno, spingeva l'artista a prove sempre più impegnate e pregnanti. E' da tale esperienza che prendono forma, con la mediazione di modelli ed ambienti costruiti dal vero, le opere più corpose e certo definitive di quella particolare stagione pittorica: il Batterista Jazz e l'omaggio al Cool Jazz. L'iconografia tipica del jazz risulta ora superata da un approccio di totale invenzione, che pare procedere in perfetta sintonia con l'esperienza improvvisativa di natura prettamente jazzistica: l'aggancio alla realtà, in uno scatto tipicamente iperrealista, è costituito da soli ricordi, o meglio impressioni, che compongono una sorta da materia duttile per scorribande sempre più avventate dentro la fantasia e l'invenzione estemporanea. Siamo oltre gli stilemi, in terra di nessuno, dentro una totale solitudine creativa. La simbiosi con l'improvvisazione musicale è ormai fatto compiuto. La tensione degli uomini del Cool Jazz è racchiusa nella linearità dei movimenti che, con impalpabile ma precisa icasticità, esprimono un'intima esigenza di suoni ovattati e raffinati che gli stessi sottili scambi tra luci ed ombre tendono ad impreziosire in un parossistico crescendo emozionale, rivissuto nelle muscolature possenti dei suonatori che sembrano riassorbire, nella propria fisicità, la musica testé espressa. Ma è nel 1960, con il Batterista Jazz, che si realizza l'opera più complessa e di maggiore vigoria espressiva. Il rosso che avvolge la tensione muscolare del musicista è puro suono ed è nel colore, armonizzato in tonalità diverse ma in rigorosa interdipendente sintonia, che si esplicita il messaggio di cui strumenti e musicista rappresentano una intrinseca, seppur indispensabile, cornice. Il colore diventa pertanto suono allo stato puro, supporto essenziale alla determinazione del dipinto, valore maieutico cui rapportare ogni altro elemento configurabile come dettaglio di contorno. Si viene così determinando una rigida gerarchia di valori che subordina all'elemento primario, il colore, ogni altra esigenza di figurazione, in modo tale da esaltare l'enunciato sonoro, direttamente connesso al fatto cromatico, tramite un rigido procedimento di sintesi che nulla concede a qualsivoglia elemento figurativo, relegandolo a mero fattore subalterno. Il taglio di base della tela elimina tutti i possibili appoggi rendendo quasi incorporeo il protagonista che, visto di spalle, lascia appannaggio dell'intuizione la mimica facciale. Il colore - dal rosso ai suoi derivati del bruno e del viola - percuote direttamente le pelli ed i metalli dello strumento, inebriandoli di suoni le cui vibrazioni sono quelle stesse che i diversi accenti coloristici suggeriscono, secondo un tracciato di arcana, stupefatta fantasia. Giovanni Bruzzi ha affrontato la difficile sfida di materializzare il suono, la melodia e il ritmo del jazz; questi quadri, oggi vecchi di trent'anni, ne sono la tangibile testimonianza. Per me ne è uscito vincitore.

Gianfranco Cascella
(Presentazione catalogo "Jazz", Edizioni Kappaesse, Firenze 1989)

KENNY CLARKE

Al bar "Monaco", posto vicino al mio studio a Carrefour Odeon, frequentato prevalentemente da americani, all'inizio di maggio del 1960 conobbi il chitarrista jazz Jimmy Gourley (bianco), che suonava nel complesso del batterista negro Kenny Clarke al night club "Blue Note" (Rue d'Artois, agli Champs-Elysées) con al pianoforte il mitico Bud Powell, star indiscussa del be-bop, il jazz negro di New York. La musica jazz, a quel tempo, mi intrigava moltissimo tanto da aver eseguito nel 1956-1957 importanti quadri sui suonatori jazz (unico in Italia!), quindi anche a Parigi avevo frequentato i locali notturni con musica jazz del Quartiere Latino ("Le Caméléon", Tabou", "Le Chat qui pêche", "Caveau de la Huchette", "Club Saint Germain"), nessuno però era all'altezza artistica del complesso di Kenny Clarke. Perciò una sera mi recai al "Blue Note" in compagnia di Claudine, una attraente ragazza di Bordeaux, e Jimmy Gourley mi presentò a Kenny Clarke e a Bud Powell (completavano la formazione un contrabbassista francese e il negro Lou Bennet, organo elettrico). Con Bud Powell, ormai irrimediabilmente partito per la tangente (alcol e droga), non ci fu possibilità di dialogo, mentre Kenny Clarke, uomo estremamente colto e intelligente, mi prese subito a ben volere e dimostrò grande ammirazione per le foto dei miei precedenti quadri sul jazz. Un sabato sera, ritornato al "Blue Note", vi trovai una gran ressa e perciò mi fermai al bancone del bar vicino all'ingresso non essendoci posto ai tavoli, ma Kenny Clarke mi vide e mi fece cenno con la mano di andare da lui (l'orchestra era sistemata su di un palco all'angolo di sinistra in fondo al locale, con davanti una piccola pista da ballo con tutt'intorno i tavoli per il pubblico) e, quando lo raggiunsi, mi invitò a sedermi su di una panchetta, appoggiata al muro, proprio dietro la sua batteria; quando toccò al rituale e richiestissimo suo assolo, si accese un faro di luce rossa direzionale sulla batteria, mentre tutte le altre luci si spensero; di colpo, in quell'occasione, mi si visualizzò l'inquadratura da dove realizzare un grande dipinto su Kenny Clarke: di schiena, in controluce, con tutti i tamburi e i piatti luccicanti su di uno sfondo rosso. E così, in seguito tra mille difficoltà, approfittando dell'ospitalità di un mio amico fotografo che mi mise a disposizione il suo vasto studio a Boulevard Raspail, approntai una grande tela (cm. 210x120) e dipinsi Batterista jazz. Il dipinto riscosse uno strepitoso successo di critica e di pubblico quando lo esposi nella mia mostra personale a Parigi nella "Galerie du Foyer des Artistes". Rividi ancora Kenny Clarke, dopo del tempo, alla discoteca "Black Hawk" (Rue Mazarine, nel Quartiere Latino) in allegra compagnia femminile bianca e, ancora oggi, conservo la sua conoscenza fra le cose importanti del mio soggiorno a Parigi e i suoni ritmici della sua batteria fra le cose più belle della musica jazz ascoltata dal vivo.

Giovanni Bruzzi


Batterista jazz (Kenny Clarke al "Blue Note"), (1960, cm. 210x120, olio e tempera su tela).



Vecchia insegna di Parigi: Black Hawk (1964, cm. 32x42, china e acquerello su carta).


Locandina 1.



Locandina 2.



Locandina 3.



Locandina 4.