 Nudo velato,(1958, cm. 50x60, olio su tela).
 Manifesto.
 Nudo voltato,(1964, cm. 90x58, olio su tela).
 Vaso con fiori (1965, cm. 80x110, olio su tela).
Crocifissione (1965, cm. 75x95, olio su tela). Opera collocata nella Chiesa del Sacro Cuore di Prato.
GIOVANNI BRUZZI Tra i giovani della presente
generazione, una particolare attenzione merita il fiorentino
Giovanni Bruzzi. Egli parte da considerazioni metafisiche per
giungere gradualmente ad una sorta di linguaggio surrealista, che
non trova riscontri in tendenze e scuole italiane contemporanee.
Detto questo che serve ad evitare troppo facili classificazioni,
dobbiamo necessariamente porre gli accenti sugli aspetti più
genuini dell'arte del Bruzzi. Gli è che, convinto da Paolo
Uccello che la realtà alla quale ispirarsi deve necessariamente
essere tradotta in linguaggio poetico e quindi fuori del reale,
si è andato man mano accostando a certi moduli, proposizioni e
programmi più comuni e connaturati alla pittura tedesca
d'avanguardia (che fa del surreale o del metafisico anche quando
usa un linguaggio astratto) ed a certi artisti più cosmopoliti
tipo Salvador Dalì e Leonor Fini. Il contenuto, il dato
intellettualistico è luogo scontato ed acquisito. Tuttavia,
questa pittura, attraverso la visione di questo valente giovane,
acquista in bellezza quello che perde talvolta in drammaticità
ed esagerazione dell'elemento patologico. Questa sua veduta di
Parigi, per esempio, così quadrata, (chè l'elemento geometrico
o geometrizzante, tende a scarnificare e presentare nella sua
naturale crudezza quello che è essenziale nella architettura
parigina) così resa nella sua essenza può facilmente indurti a
credere che sia abitata da una strana umanità. Ed è ben strana,
pur nei suoi caldi accenti umani, l'umanità appunto, che sorge
attraverso le linee di mestiere del pittore Bruzzi. Un'umanità
che diventa talvolta rinoceronte, corazzato in maniera
incredibile senza possibilità di sensazioni o pentimento, ma hai
appena preso confidenza con quella scorza rude ed infingarda che
scopri un' "occhiolino" indifeso, tenerello, infantile,
pronto alla compassione ed al pentimento. Insieme al rinoceronte
coabitano in questa sua Parigi, circondati da chincaglierie fine
di secolo, poggiate sopra merletti ammuffiti ed ingialliti, il
suonatore di jazz-band, immerso in una "paradisiaca
atmosfera" sensualistica che dona un po' della sua luce
rossa e delle magnifiche donne nude, degne di un paradiso
perduto. Al piano di sotto o nella casa accanto, c'è
l'intellettuale smarrito che ricerca disperatamente i temi di una
perduta ispirazione e getta nel vuoto i suoi pensieri vuoti che
portati dall'aria avvizzita fuggono attraverso le fessure di una
porta sconnessa verso la "macina dei sogni".
Ernesto Galdi
(Presentazione mostra personale
"Galleria Antares", Roma 1961)
 Grande cactus (1969, cm.90x70, olio su tela).
 Siesta (1971, cm. 80x60, olio su tela).
 Spugna (1977, cm. 120x100, olio su tela).
 Grande spugna (1973, cm. 135x120, olio su tela).
 La parete di Giovanni Bruzzi con la Grande spugna, affiancata da due più piccole, alla “Biennale Internazionale d’Arte – 21° Premio del Fiorino” (Firenze, “Fortezza da Basso”, 12 maggio – 24 giugno 1973)
 Il bustino bianco,(1978, cm. 50x70, olio su tela).
 I sandali rossi,(1979, cm. 50x70, olio su tela).
 Paniere di mele (1982, cm. 65x60, olio su tela).
 Grappolo d'uva e mele (1982, cm. 80x60, olio su tela).
 Cocomero (1983, cm. 60x80, olio su tela).
GIOVANNI BRUZZI Di recente, in arte, qualcosa è
accaduto. I gusti non sono più quelli - per chi ne aveva o
fingeva averne - di soddisfatto accoglimento di tutto ciò che
fosse <<non forme>>
e soltanto <<non forme>>.
E se mai ci fu reazione a un'azione, questa della
pittura sommamente figurata in opposto - si può crederlo - alle
prodezze astratto-informali ora in retrovia, assegnate ai servizi
sedentari, è reazione al cento per cento. Magari
eccessiva, magari, come dicono i chimici, al <<rosso
tornasole>>; cioè, chimicamente <<acida>>,
violenta in se stessa e tale per troppo interesse alla forma
rifinita a cui vengono persino attribuite delle velleità
sostitutive: il vero del circostante, qual'è collocato
ingannevolmente nel quadro; insomma, il classico trompe-l'oeil.
Per quanto tutto ciò abbia a dirsi anche in relazione a quel che
fa, dipinge il fiorentino Giovanni Bruzzi (giacchè le tesi
generali non possono avere, criticamente, pesi e misure diverse)
c'è però da obiettare che nei dipinti di Bruzzi la realtà
liscia, la figura e l'immagine veritiere sono alla fin fine dei media
per conseguire lo scopo. Il quale è quello della inclinazione al
surreale, ch'è pur sempre a modo suo e in genere lo
scavalcamento della realtà, il suo <<evitarla>>...
dipingendola per eccesso. Ed è proprio quest'<<eccesso>>
che si pone in chiave spirituale, che soprastà al fatto
riproduttivo in quanto ha sopra di sè un quid di
trasognatamente cristallino, inesistente in natura. Osserviamo il
batterista, questo ministro del jazz sincopante, osserviamo i
gladiatori redivivi, la verza sul piano del tavolo in fòrmica
bianca, i carciofi, la nudità femminile vista da tergo,
l'incantato uomo: simbolo puro, metafisico, della condanna divina
d'Adamo (<< ... e tu lavorerai...
guadagnerai il pane tuo con il sudore della fronte... >>).
Sono raffigurazioni dipendenti da un linguaggio, da uno stile haché,
conciso a dispetto delle apparenze, chiaro, con il suo <<fissativo>>
che trasforma tutto, gli umani, gli oggetti, i fiori, gli alberi
forcelluti spogli e serpigni, in un mondo di cose vetrine e però
non vetrificate. Non siamo, attenzione, al livello del Musée
Grevin; non è, voglio dire, la pittura di Giovanni Bruzzi
alla condizione ghiacciamente espressiva della
pittura-statue-cera; ne siamo ben distanti. Dove, sì, la vita
può fermarsi un attimo, perchè la si possa cogliere nei suoi
aspetti magici, forse infantasticabili - così come invece
appaiono in Bruzzi - quali i poeti e i sognatori vorrebbero
tuttavia fossero in essa; siamo comunque al sogno, non, comunque,
alla vita in letargo. Per arrivare a questo stato di
qualificazione dipinta occorre aver mano al disegno, al colore,
al mestiere; attitudine alla immaginazione, che dura fatica a
insinuarsi là, quando la forma oggettiva vi si opponga,
quando il far parlare un dipinto diventa problema di significati
epidermici che strappino a sé, fuori, i significati più
interni. E va saputo altresì che con le magie cennate, con i
ritratti di ragazze dagli occhi rapaci, la linea, certe linee
chiudenti i nudi bloccati nei loro volumi hanno del sottile
incisivo: la profilatura, a taglio di rasoio. Si vorrebbe, qui,
spostare il discorso su di un altro polo: quello di un
complementare espressionismo linearistico, in Bruzzi evidente. Si
vorrebbe; ma questa paginetta non va condotta oltre i limiti del
biglietto da visita tradizionale, della semplice presentazione al
pubblico di un pittore, ch'espone adesso, per la prima volta, a
Milano.
Mario Portalupi
(Presentazione mostre personali:
"Galleria Barbaroux", Milano 1964; "Galleria
Spinetti", Firenze 1966)
 Arlecchino (1986, cm. 50x60, olio su tela).
 Pulcinella,(2005, cm.60x80, olio su tela).
 Picchio (1985, cm. 50x60, olio su tela).
 Conchiglie (1983, cm. 70x50, olio su tela).
GIOVANNI BRUZZI A cinque anni di distanza dalla sua
prima personale a Milano il pittore fiorentino Giovanni Bruzzi ne
ordina un'altra. In questo lasso di tempo, attraverso numerose
mostre individuali e collettive in Italia, ha ottenuto vivi
consensi di pubblico e di critica. Pronipote di Stefano Bruzzi,
celebrato animalista della seconda metà dell'Ottocento, già
dalla passata esibizione milanese si potè notare come il giovane
artista non apparisse in alcun modo legato a quella tradizione
naturalistica e romantica nel cui ambito aveva agito e si era
distinto il suo famoso parente. Piuttosto la sua pittura il pur
necessario contatto col passato - si è sempre figli di qualcuno,
altrimenti non si esiste - lo stabiliva, e lo stabilisce, con una
sfera più lontana nel tempo del secolo scorso e più aurea: il
Quattrocento: e se proprio sono da citare nomi, farei quelli di
Piero e di Paolo Uccello. Dunque egli si rifaceva a una pittura
che alla realtà guarda si ma con il lucido occhio
dell'intelletto, una pittura <<cosa
mentale>> secondo la definizione
leonardesca e che nella rigorosità e astrazione della
metamorfica interpretazione del dato naturale proposto dalle
apparenze sensibili del mondo fisico insita nell'arte, si basava
anzitutto su quel mezzo di indagine della forma che è il
disegno. E il disegno, come la prospettiva e il colore, sono
ancora i presupposti del linguaggio di Bruzzi. Egli però mentre
tendeva precedentemente a una sorta di realismo oggettivo, non
senza una accentazione analitica e ottica nel presentare nitido e
misurato il motivo pittorico prescelto, mi sembra abbia reso poi
più concentrati e asciutti i modi espressivi come lessico e
sintassi, al tempo stesso aprendo in senso più fantastico e
venato di metafisico la narrazione. Perchè Bruzzi è un
narratore di tono singolare che attraverso il disegno e il colore
adoperati con padronanza di mezzi tale da consentirgli un
discorso plastico preciso e incisivo, tende a rivelarci la vita
segreta di ciò che lo colpisce e stimola la sua fantasia. Questo
lo porta a essere, come in arte è giusto sia, oggettivo e
insieme soggettivo: a individuare la realtà fisica e trasporla
su un piano metafisico, cioè spogliato del contingente, ideale,
poetico. Il tema per lui può essere una semplice pianta di
cactus della quale egli ci dà una immagine essenziale, nitida,
emblematica, posta in relazione con la superficie afra di una
spiaggia orlata all'orizzonte dal mare. E appunto l'architettura
della pianta, variata contro l'uniforme piano sabbioso dà
occasione di racconto, per via naturalmente visiva, che si carica
di sensi segreti, per esempio un misterioso sapore come araldico.
Può essere invece una figura di donna che in virtù di
atteggiamento, di un disegno il quale trova sempre la linea
esatta nella realizzazione della sintesi dell'insieme complesso
dei piani, nel colore messo con sottigliezza di variazioni tonali
e chiaroscurali, si fa immagine di tono diverso suggerito da
altri contenuti, è insomma racconto differente dal primo come
spirito e palpito. In uno stile però eguale, con una eguale
rispondenza tra visione e inventiva, che si carica in modo eguale
di metafisico. Si potrebbe continuare per sottolineare l'evidenza
di un cammino nel quale l'individuabilità dell'artista, il suo
sostrato fantastico e culturale, la sua conoscenza dei problemi
del disegno e del colore si dispiegano e si evolvono con coerenza
e con distintivi caratteri. Ma piuttosto credo che sia opportuno
segnalare come in un grande e recente quadro <<Il
batterista>> si verifichi una
ulteriore intensificazione dei valori propri del mondo interiore
e della pittura di Bruzzi; ciò attraverso un approfondimento in
direzione compositiva, cromatica, tonale e uno scatto della
immaginazione che immettono un particolare lirismo, fermentante
di vitalità nei risultati. Questo quadro in confronto dei
precedenti è forse meno assorto e allusivo, ma senza rinunziare
alla sostanziale <<metafisicità>> della visione di
Bruzzi e alla plasticità del suo stile espressivo mi sembra più
allucinato, più significante come pittura e narrazione, più
immediatamente comunicativo in fatto di contenuti e forma.
Suppongo che questo dipinto sia l'inizio di una fase nuova nella
evoluzione dell'artista e un suo passo avanti. Passo suscettibile
di altri fecondi risultati per questo pittore nativamente dotato,
ricco di fantasia e cultura, che sa essere moderno senza
rinnegare la tradizione dalla quale proviene, che sa affermare
persuasivamente la propria personalità, la propria autonoma
fisionomia, il proprio modo di essere pittore e artista, senza
seguire le mode passeggere, gli andazzi di un conformismo che si
camuffa da spregiudicata avanguardia.
Mario Lepore
(Presentazione mostra personale
"Galleria Cocorocchia", Milano 1969)
Treccia d'agli (1982, cm. 50x70, olio su tela).
Nautilus (1984, cm. 50x70, olio su tela).
Ramo di diosperi (1984, cm. 50x70, olio su tela).
Boccia e conchiglia (1985, cm. 50x70, olio su tela).
 Vaso con gladiolo e lume a petrolio (1985, cm. 70x90, olio su tela).
 La grande zuppiera di rame (1984, cm. 90x80, olio su tela).
 Il Budda di maiolica (1989, cm. 70x90, olio su tela).
Manifesto.
Manifesto.
GIOVANNI BRUZZI
Qual'è stato realmente il panorama
della pittura a Firenze negli ultimi vent'anni? In uno schema
affrettato (nipotini di Rosai, <<astrattisti
classici>>, e tutti i giovani che
appartennero a quella incredibile fucina di possibilità che fu
il Numero di Fiamma Vigo) si devono sempre aggiungere tasselli e
tessere per far quadrare un mosaico che per sua natura e fortuna
è destinato a non quadrare. Se, come si annuncia da tempo,
verrà fatta una mostra ricapitolativa di questa situazione se ne
vedrebbero in maniera palmare gli spunti originali ed imprevisti;
almeno che non si procedesse secondo una prassi abbastanza
usuale, quella cioè di ripescare i recipienti delle <<tendenze>>
internazionali per infilarci dentro, arrampicandosi sugli
specchi, la vitalità di tanti giovani che a tale tendenze
concedevano solo un interesse di partenza. Il caso di Giovanni
Bruzzi è poi addirittura esemplare; dopo un breve apprendistato
scolastico ancora di lontana e contraffatta ascendenza careniana
(e chi, prima di uscire da accademie o scuole d'arte, sino a
pochi anni fa se ne è salvato?) Bruzzi si è subito scelto un
terreno di ricerca assolutamente controcorrente. Erano gli anni
nei quali l'esperienza <<informale>>
sembrava necessaria per bruciare le scorie di una tradizione
asfittica e incartapecorita per mancanza di reale dialettica. Si
pensò di esorcizzare con la fiamma ossidrica della <<gestuazione
prerazionale>> una <<razionalità>>
da tempo divenuta di marzapane. Le conseguenze, positive o
negative le conosciamo tutti; non si può dire certamente che si
sia in realtà dissolto il tarlo accademico se si guarda
all'insopportabile accademia ripescata (ma sempre polemicamente!)
in anni recentissimi da molti di quei giovani d'allora. Bruzzi,
dicevamo, si scelse un discorso completamente suo, anche se
ovviamente non sradicato dalla storia delle immagini che veniva
indagata per proporre necessari precedenti lessicali al proprio
linguaggio. Compì cioè quasi una depurazione, una dissoluzione
acida di quel processo di illanguidimento tonale con cui per
molti anni del novecento si era creduto attraverso un preteso
cezannismo, di guardare alla <<tradizione
quattrocentesca>>. Tornò all'antico
con la caparbietà appuntita di un giovane che crede di poter
distruggere dentro di sé retaggi e tramiti secolari; e
addirittura per evitare il quattrocentismo di maniera espatriò e
andò a Parigi. Luogo comune, sembrerebbe; ma a Parigi Bruzzi
ignora proprio tutto quanto può vedere dall'impressionismo ai
nostri giorni, e dell'aria parigina si serve come di una sorta di
<<zona di vuoto>>
entro la quale poter compiere senza paura di <<provincialismi>>,
un discorso che a Firenze gli sarebbe stato rinfacciato come <<reazionario>>.Cominciano
così a definirsi quelle strutture accanitamente modulari che
dovranno rimanere alla base di tutta la futura attività
dell'artista. Quello che ci fa maggiormente meraviglia è che sin
dall'inizio alcuni aspetti di questa <<operazione>>
sono fortemente vicini ad una recente esperienza storica che
Bruzzi al momento non conosceva; e cioè allo sfocio estremo di
uno degli aspetti di <<Valori
plastici>> che soprattutto nelle
opere di Edita Broglio dal '30 in poi assume una fisionomia di
lucida intellettualità neoquattrocentesca; un'esperienza che,
d'altra parte, era ben lontana dai programmi di <<ritorno
all'ordine>> o di <<novecento>>
che invischiarono le mani già rattrappite di tanti pur celebri
pittori che nel <<quattrocento>>
non sapevano vedere altro che una inesauribile fonte di <<lucidi>>
su mele, pere, tazzine da caffè ed altra bigiotteria casalinga.
Anche Bruzzi adopera tutta la sequela degli ortaggi funesti, ma
come cristallizzazione, ai limiti ironica, di un modulo che nel
suo stesso iterarsi perde qualsiasi compiacimento descrittivo. I
colori, privi di tonalità sono accostati per contrasto, tesi
come panni elastici sopra i quali gli oggetti rimbalzano entro
traiettorie previste. Il rapporto tra limite della tela e
andamenti proporzionali rimane quasi sempre inalterato; ad un
espandersi dei primi segue l'addizionarsi dei secondi con una
consequenzialità che può sfiorare il monumentale. E' in queste
opere di più vaste dimensioni, infatti, che Bruzzi cerca più
apertamente il ricorso ai moduli <<antichi>>;
e rimanda con programmatica esemplarità agli schemi anatomici
del Signorelli, alla loro modulazione ipertesa entro piani di
colore agghiacciati. Al pericolo del monumentale Bruzzi reagisce
poi tentando una radicale operazione di distacco emotivo dal
soggetto. Il processo diviene di oggettivazione-iperbole, anche
se passa per tramiti culturali che vanno dalla cosiddetta <<nuova
oggettività>> (e relativi
fraintendimenti <<neorealisti>>)
sino ad un ritorno, forse istintivo, al Rosai <<grande>>
quello delle <<Toppe>>
oscure, giocate tra giganti incupiti di tragedia. E non si vuol
con questo indicare quel volontario <<omaggio
a Rosai>> che il pittore ha dipinto
in un quadro che a punto delle <<Toppe>>
riprende il soggetto. In quest'opera le citazioni rosaiane
divengono schemi fisiognomici e sono quasi esorcizzate in un
contesto che alla radice stessa è lontano le mille miglia dal
doloroso neomasaccismo del Maestro. Nelle opere dal '70 in poi si
è andata sempre di più accentuando questa necessità di ridurre
il soggetto a elemento totalmente emblematico; di qui la
giustificazione della <<serie>>
e del processo iperbolico a cui spesso l'oggetto rappresentato
viene sottoposto. In questo senso è particolarmente indicativa
appunto la lunga serie dei <<Cereus>>
nella quale, forse con maggior evidenza che in altre opere,
attraverso il farsi della rappresentazione si arriva a dissolvere
quasi completamente la forma oggettiva e a proporne solamente
alcuni andamenti simbolici. Sembra che Bruzzi, pur giunto alla
sua piena maturità , tema ancora il rapporto pittorico <<tradizionale>>
con l'oggetto e implacabilmente rintuzzi tutti gli elementi
emotivi che la sua abilità tecnica e lo stesso tipo di
approccio, quasi fabulistico, con la propria realtà figurale gli
consentirebbero. E' un processo di ibernazione della forma
attraverso il quale si compie più facilmente, senza timore di
concessioni descrittive, la ricerca del senso storico di quella
forma stessa; questo mi è risultato particolarmente evidente in
una serie di <<insegne>>
(non presenti a questa mostra), nelle quali pur sopravvivendo
dell'immagine solamente lo schema metrico o divenendo essa vero e
proprio ideogramma di un necessario ulteriore alfabeto (la serie
stessa), il pittore raggiunge proprio dalla tensione narrativa
risultati particolarmente felici. Non si rischi perciò di
equivocare il linguaggio di Bruzzi con le recenti poetiche
neofigurative, neoaccademiche o iperrealiste. A parte la più che
decennale continuità della ricerca, è il rinvenimento della
cadenza metrica di una particolare storia figurativa scelta come
implacabile precedente, e non la descrizione dell'oggetto come
dissensata epifania, che caratterizza e qualifica al di fuori dei
<<casi>>
mercantili il linguaggio così disagevole di questo artista.
Raffaele Monti
(Presentazione mostra personale
"Galleria Menghelli", Firenze 1973)
 Iris (1988, cm. 50x70, olio su tela).
 Spaventapasseri (1998, cm. 70x90, olio su tela).
 Il gatto nero (2000, cm. 50x60, olio su tela).
 Artisti per il disarmo: Giovanni Bruzzi, La guerra insidia sempre la pace (1987, cm. 50x70, tecnica mista su cartone bianco) e Alberto Moravia, Forse preferirebbe un bambino (autografo direttamente sull'opera pittorica).
 Palio eseguito da Giovanni Bruzzi per il Comune di Massa Marittima nel 1991.
 Il palio di Giovanni Bruzzi viene portato in corteo nella sfilata tradizionale, prima della gara del “Balestro del Girifalco” (11 agosto 1991).
I CICLOPI DI BRUZZI Tra le stravaganti tematiche
prescelte da Giovanni Bruzzi quella dei ciclopi risulta la più
caratteristica con ruolo di fil rouge che attraversa in
pratica tutto l'arco evolutivo della sua ricerca pittorica, il
primo esempio risalendo al 1960.Questo tema ha recentemente
registrato un notevole incremento con l'accentuarsi della
determinazione poetica dell'artista in area fantastica. Sarebbe
tuttavia grave imprecisione e poco rispettosa superficialità
verso la serietà e l'impegno del suo lavoro considerare le
tematiche prescelte come dato caratteristico decisivo della sua
eccentricità. L'originalità di Bruzzi si svolge più a fondo, a
livello di uso degli strumenti e del linguaggio. Egli pratica una
pittura solo apparentemente semplice ma in realtà complessa, di
velature sovrapposte che sono il segreto delle fini tonalità
ritrovate, trasparenti, dalle stesure accurate, tessute
pazientemente che, alla fine, offrono d'acchito l'impressione
della tinta piatta. Ma all'occhio esperto non sfugge la qualità
della materia, derivata dalla fusione di mezzi toni, che riesce
luminosa e cromaticamente insolita. Bruzzi recupera il segno
della quattrocentesca pittura Toscana e ne assorbe la facoltà di
sintesi. I suoi dipinti, infatti, si notano anche per la drastica
riduzione delle connotazioni descrittive. Le forme, pur
mantenendo intatto l'aspetto denotativo, sono come limate,
prosciugate da ogni decorativismo, impoverite al massimo d’ogni
sovrastruttura descrittiva, raggiungendo una secchezza fredda
benchè - e questo è alquanto atipico - la sensazione non possa
riferirsi a spezzature della linea o geometrismi della forma
totalmente assenti nei dipinti di Bruzzi in cui domina, invece,
la linea ondulata con dolci andamenti. L'originalità di questo
pittore è dunque da ricercare anche nel suo porsi sul piano
esecutivo come indipendente da ogni situazione di gruppo o di
tendenza, assolutamente isolato, assolutamente originale. Alla
base dei suoi ciclopi, e lo si afferma senza la certezza di una
conferma peraltro probabile, vi è il celebre quadro di Odilon
Redon (al Rijksmuseum Kroller-Müller di Otterlo, in Olanda),
un'immagine cara e ben nota a tutti i pittori di formazione
surrealista o comunque visionaria. E' un dato culturale che può
spiegare altri aspetti della pittura del Bruzzi che qui non
intendiamo indagare. In questo quadro il ciclope si affaccia da
un dirupo ad osservare una ninfa addormentata. Ha uno sguardo
triste, per nulla allietato dalla vista; come gran parte delle
opere di Redon esprime un cocente sentimento malinconico. Il suo
sguardo muove a tenerezza e il suo gigantismo appare come una
deformità da compiangere e compatire. I dipinti di ciclopi del
Bruzzi mantengono questa struttura. Tutti s'affacciano dietro un
piano, che copre il quadro per due terzi. Ma l'atmosfera è assai
differente. L'occhio del mostro è fisso, allucinato. Più che
guardare oltre il dirupo sembra spiare, nascondersi, più che
inquietare sembra egli intimorito da qualcosa che lo preoccupa e
che si trova al di qua, dalla parte dello spettatore. Rifacendoci
alla mitologia possiamo considerare che la sorte dei ciclopi non
fu pacifica. Giulio Romano ha dipinto nel Palazzo Te, a Mantova,
il crollo rovinoso dei massi olimpici che li dilania e spiaccica.
Né le loro funzioni quali fabbricanti delle saette di Giove li
destinano ad una tranquilla area del mito. La loro natura,
apparentemente violenta per il gigantismo vigoroso delle membra,
è quella di sopportare invece la violenza altrui. Figli del
cielo e della terra subivano le intemperanze di genitori in
perenne dissidio. Alcuni nomi, secondo il più antico dei
mitologi, sono Arge, Bronte e Sterope, cioè lampo, tuono e
folgore. Giove ebbe da essi le armi per scacciare Saturno e
battere i Titani. Callimaco, Ovidio e Virgilio li pongono al
servizio di Vulcano, l'irascibile dio fabbro, a Lipari e Lenno.
Per alcuni sono antropofagi (vedi la sanguinosa vicenda di
Polifemo, accecato da Ulisse), secondo altri si nutrono dei
frutti della terra incolta. Un'antica tradizione, attribuita a
Strabone, descrive i ciclopi come costruttori di mura colossali.
Appena nati, Giove li scagliò nel Tartaro, poveri diavoli! Servi
di Vulcano erano Bronte che faceva i fulmini, Sterope che li
teneva sull'incudine, e Piracmone che li batteva. Ma i ciclopi
anonimi sono un centinaio, e Apollo li sterminò con le sue
frecce. Secondo i mitologi i ciclopi si distinguono a gruppi:
quelli di Esiodo sono allegorici, quelli di Omero sono in
Sicilia; altri rappresentavano vulcani e il loro occhio tondo
simboleggia il cratere; quelli di Corinto sono considerati
gl'inventori dell'architettura. E quelli di Bruzzi? Sono, come
noi, individui timorosi di vedere oltre la siepe, di gettare uno
sguardo al futuro. Si caratterizzano appena per il copricapo che
riveste la parte di volto visibile, sull'occhio spaurito. Viene
alla mente un celebre quadro di Max Ernst dal titolo <<C'est
le chapeau qui fait l'homme>> (1920,
Museum of Modern Art a New York): i ceti sociali e le razze si
deducono dal cappello. E sono una varietà eterogenea, come a
dire: tutti noi; ci possiamo identificare con l'uno o con
l'altro. Il diaframma, rupe, paravento, quinta, che li divide
dall'al di qua è forse una protezione, uno schermo che temono di
superare per non trovarsi in un ambiente sgradevole,
probabilmente violento quanto la loro storia di scellerate
angherie subite per mano dei potenti; ma è anche la parete che
divide la storia d'ieri da quella d'oggi, ben più temibile al
loro occhio perchè nel nostro tempo il mito è scomparso ed essi
non possono vivere che in esso, e divide la fantasia dalla
realtà, la fiaba del mito dalla vita quotidiana con i suoi
squallori e privazione d'eroismi, un riparo dalla terribile
consuetudine di stillante violenza del modus vivendi
contemporaneo. Il loro occhio, al centro della fronte, esclude
gli altri due. Ed è col terzo occhio, si dice, che si può
vedere il futuro e il colore dell'alone che definisce la vera
natura dell'individuo. Il di qua della barriera, secondo Bruzzi,
è buio. Comunque non vi si scorgono gradevoli aloni di colore, a
giudicare dall'espressione della enorme pupilla sbarrata. O
forse, questi ciclopi, consci della loro diversità, non possono
superare la barriera costruita dalla normalità? Si tratta di
un'allegoria della condizione di diverso a cui è condannato
l'artista solitario? Vi sono mille possibili chiavi di lettura
per immagini ambigue come queste: e dall'ambiguità deriva gran
parte del loro fascino. Né si può escludere che, in fondo, la
magia capziosa di questi dipinti agisca perchè, come dice La
Fontaine nella sesta fiaba del libro IX, <<L'homme
est de glace aux vérités, il est de feu pour le mensonge>>.
Renzo Margonari
(Presentazione mostra personale
"Galleria Comunale", Campobasso 1982)
 Ciclope negro con feluca (1978, cm. 70x90, olio su tela).
 Ulisse e Polifemo (1990, cm. 90x130, olio su tela).
 Il dipinto Ulisse e Polifemo durante l'esecuzione nello studio di Giovanni Bruzzi in via dei Servi 32 a Firenze nel 1990; il modello in posa con in braccio il manichino è Diego, il figlio dell'artista (riconoscibile anche nel dipinto David e Golia del 1983).
 Il ciclope Polifemo,(2004, cm.75x100, olio su tela).
UNA PERSONALISSIMA CIFRA DI
EVOCAZIONE LIRICA Si può plausibilmente affermare che
la storia del ritratto coincide pressappoco con la storia
dell'espressione figurativa, giacchè nessuna civiltà, capace di
manifestazione artistica, è venuta meno a questo tipo di
rappresentazione, essendo il genere, fra tutti, quello più
implicato con la storia del costume e della società, legandosi
alle credenze religiose ed ai riti che sono, per larga parte,
all'origine dell'arte, alla mitizzazione dell'eroe e del potente
di turno. Secondo una definizione canonica, infatti, il
"ritratto" è la rappresentazione figurativa di una o
più persone definite e riconoscibili. Tuttavia, non sempre la
identificazione si attua attraverso la trascrizione realistica
dei tratti fisionomici (come avviene per lo più nel
"ritratto" occidentale dal Rinascimento all'Ottocento)
o attraverso elementi esterni quali il costume, l'ambiente,
particolari attributi relativi al personaggio (che hanno un ruolo
fondamentale nel ritratto cosiddetto "idealizzato" o
"immaginario", orientato soprattutto verso la resa di
un "tipo"), ma attraverso la rappresentazione di
fisionomie "arbitrarie", le quali, ancorchè ben
caratterizzate, non si studiano di ripetere veristicamente i
tratti somatici, né tantomeno la fisionomia, ma sono puramente
indicative della persona cui si riferiscono. Ebbene, sin da una
lettura d'acchito, ci pare che la serie di "ritratti"
femminili che Giovanni Bruzzi offre alla nostra attenzione (e che
si propone come l'unica costante tematica nel variegato mosaico
della sua sensibilità pittorica, assumendone conseguentemente il
ruolo di una interessante koiné espressiva) possa farsi risalire
proprio all'ambito di quest'ultima tipologia figurativa,
sembrandoci l'attenzione dell'artista prevalentemente rivolta
più a prefigurarsi una simbologia di determinati valori
etico-estetici che una pittografia di dati fisici: insomma, più
a significare il "personaggio" che a rappresentarlo. Si
tratta, comunque, di un complesso di opere che coprono un lungo
periodo di tempo (1956-1988) e che, pertanto, denunciano una
inevitabile "discontinuità" di stile, ma che ci danno,
nello stesso tempo, la misura di una evoluzione artistica
costantemente in progress, di un travaglio di scelte
acquisizioni ed accantonamenti metodologici di una notevole
importanza didattica per chi desideri accostarsi, sul piano
ermaneutico, alla produzione del Nostro; a cominciare dalle
fonti, che sono fonti inequivocabilmente classiche e per le quali la
citazione di nomi come quelli di Raffaello, Bronzino, Ingres è
addirittura d'obbligo. In realtà, è soprattutto al rigoroso
purismo del maestro d'Oltralpe che l'esperienza di Bruzzi va,
sotto certi aspetti, ricollegata. Come per Ingres, infatti, anche
per Bruzzi il disegno non è mai astratto e schematico, ma
rivela, in un'acuta e tesa sensibilità, una volontà espressiva
solo apparentemente priva di emozioni, le quali si fanno invece
intime e contenute nel senso del ritmo e della elezione formale.
Il Nudo voltato del 1964, ad esempio, con la sua calma
fattura, non smentisce di essere figlio del grande artista
francese. Per esso anzi (inevitabile il richiamo al nudo di
schiena della Grande baigneuse, così intoccabile nella
sua purezza raffaellesca da spegnere ogni velleità sensuale),
vien quasi voglia di invocare meno finitezza e bravura (magari un
maggiore scarto di mano) che lo riportassero dal suo nitido algore
ad una più confidenziale tiepidezza (alla realtà, infine, della
vita terrena), anzichè tendere, come pare, a divenire una figura
di sapore mitologico. A ben guardare, tuttavia, ci pare che
proprio in quelle opere nelle quali può apparire che i modelli
ispirativi risaltino con maggiore evidenza, sono presenti alcune
delle soluzioni successive. Il colore tende ad uno smalto più
vivo, i contrasti a diventare più crudi e piatti, l'ombra ad
abolirsi per effetto di una luminosità assoluta, il disegno ad
illimpidirsi ed a farsi meno sorvegliato. Pur restando fedele ad
una visione plastica e volumetrica, specchio di una concezione
unitaria ed architettonica della realtà, Bruzzi non dimostra
più di avvertire il valore costruttivo della linea, ed anche
quando ne marca la preminenza e la torsione, essa serve
unicamente per serrare in zonature curve la larga timbratura dei
colori puri. Inoltre, la fedeltà naturalistica in queste figure
viene man mano accantonata. Si cerca piuttosto un rapporto
speciosamente "allucinatorio" di spazi e di colori e se
ne amplificano gli effetti rifiutando l'illusione della
profondità prospettica e collocando le figure (o parti di esse)
secondo un ritmo lineare e cromatico. L'ombra, la luce, il tono
sono ormai cifre antiveriste. Le corrispondenze tra le forme ed i
colori si rivelano ispirati da motivi razionali, oggettivi: una
ispirazione pittorica che cerca di cogliere, tra colore e colore,
assonanze geometriche. Il disegno traccia, perciò, arabeschi
rigidi ed il colore si espande a riempire vuoti con il risultato
di pezzature cromatiche a contrasti complementari. E' il momento,
insomma, della concisione stilistica e la sinteticità
dell'espressione ottiene effetto visionario, elementare,
primitivo, violento nella sua simbologica allusione.
Parallelamente acquista sempre più rilevanza una trasparenza
strutturale di tipo "fotografico", come se la vocazione
di Bruzzi, da una visione mediata, sia andata, lentamente e
consapevolmente, specializzandosi in una rappresentazione
immediata, com'è tipico appunto dell'approccio fotografico.
D'altra parte, questa "serva della scienza e delle
arti" (come aveva proposto Baudelaire, in una emarginazione
che dura tuttora, a centocinquant'anni dalle prime esperienze e
dopo un travolgente processo di sviluppo tecnologico che ha fatto
della fotografia un irrinunciabile medium comunicativo ed
informativo), era già entrata (e, non di rado, clandestinamente)
nello studio di pittori come Corot, Courbet, Delacroix, Degas,
Michetti, ecc., quale modello da ricalcare e trasferire a piacere
sulla tela, con un suo codice specifico, influendo decisamente
sul lavoro del pittore, indotto via via ad adeguarsi sotto gli
stimoli dell'iconografia fotografica sempre più invadente: fino
agli esiti metropolitani, iperrealistici ed antiutopistici della
Pop Art, di cui Bruzzi mostra di apprezzare almeno la presa di
coscienza, diretta ed immediata, del reale nella sua prima vitale
proposizione. In tal senso, ci pare che il perno intorno al quale
ruota tutto il lavoro di "ritrattista" di Bruzzi (e
diciamo "ritrattista" ovviamente nell'accezione
antispecifica descritta in limine) possa essere identificata col
senso della immagine chiusa, persino stringata nei suoi valori di
evidente plasticità, dove, con accenni di ricomposizione
"astigmatica" della figura, la stessa sottigliezza del
disegno e il forte risalto cromatico aiutano la solida
essenzialità dei volumi. Si tratta sempre, come si è accennato,
di un atteggiamento siglato da un forte sincretismo di influenze,
da una notevole larghezza di suggestioni culturali, in cui però
sorprende la capacità, da Bruzzi posseduta in sommo grado, di
piegare complessi contributi figurativi ad una personalissima
cifra di evocazione lirica, come sorprende il fatto che egli
abbia saputo attingere ad una cultura figurativa persino
contraddittoria (che va dai Quattrocentisti toscani ai grandi
"ritrattisti" della Rinascenza), senza subire
sbandamenti o deviazioni apprezzabili dai suoi ideali itinerari
stilistici. Di tutti questi dati culturali, infatti, la sua
memoria distilla, anzi ricrea, una immagine singolarissima,
maturata in una libertà inventiva assoluta, di asciutta
liricità che non impedisce anche una confessione sentimentale.
Il suo algore stilistico, di cui abbiamo parlato, sembra
anzi mitigato da una commozione affettuosa, da una sottilissima
tristezza, da uno slancio verticale ed energico della linea che
ha il potere di comunicare il senso di una tensione dolorosa, nei
termini di un rifiuto d'ogni peso culturale e di un raccordo
dell'immagine ad una coincidenza più intima e spontanea; ed
anche quando la linea, così rigidamente musicale, così
categorica nei tracciati dei profili curvi, sembra voglia
rinverdire l'arabesco prezioso più raffinato non perde mai quel
carattere energico di plasticità, di figura emergente,
monumentale persino: quel senso, in definitiva, di volume pieno
che domina ogni sua figura e che stabilisce anche il vero
carattere della sua visione complessiva della realtà.
Pietro Civitareale
(Presentazione catalogo "Figure
femminili", Edizioni Poesiarte, Firenze 1988)
 Ragazza nuda seduta (1967, cm. 64x74, olio su tela).
 Maternità (1968, cm. 50x60, olio su tela).
 Donna che si spoglia (1969, cm. 40x60, olio su tela).
 Gli occhiali rossi (1981, cm. 50x40, olio su tela).
 Gli occhiali rosa,(1982, cm. 50x60, olio su tela).
 Gli occhiali rossi,(1983, cm. 50x60, olio su tela).
 Gli occhiali verdi,(1983, cm. 50x60, olio su tela).
 Gli occhiali viola (1985, cm. 50x60, olio su tela).
Donna che si pettina (1982, cm. 70x90, olio su tela).
 Locandina 1.
 Locandina 2.
 Locandina 3.
 Locandina 4.
Jolly Joker (2000, cm. 70X80,olio su tela).
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