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  Nudo velato,(1958, cm. 50x60, olio su tela).
 
 
  Manifesto.
 
 
  Nudo voltato,(1964, cm. 90x58, olio su tela).
 
  Vaso con fiori (1965, cm. 80x110, olio su tela).
 
   Crocifissione (1965, cm. 75x95, olio su tela). Opera collocata nella Chiesa del Sacro Cuore di Prato.
 GIOVANNI BRUZZI   Tra i giovani della presente
               generazione, una particolare attenzione merita il fiorentino
               Giovanni Bruzzi. Egli parte da considerazioni metafisiche per
               giungere gradualmente ad una sorta di linguaggio surrealista, che
               non trova riscontri in tendenze e scuole italiane contemporanee.
               Detto questo che serve ad evitare troppo facili classificazioni,
               dobbiamo necessariamente porre gli accenti sugli aspetti più
               genuini dell'arte del Bruzzi. Gli è che, convinto da Paolo
               Uccello che la realtà alla quale ispirarsi deve necessariamente
               essere tradotta in linguaggio poetico e quindi fuori del reale,
               si è andato man mano accostando a certi moduli, proposizioni e
               programmi più comuni e connaturati alla pittura tedesca
               d'avanguardia (che fa del surreale o del metafisico anche quando
               usa un linguaggio astratto) ed a certi artisti più cosmopoliti
               tipo Salvador Dalì e Leonor Fini. Il contenuto, il dato
               intellettualistico è luogo scontato ed acquisito. Tuttavia,
               questa pittura, attraverso la visione di questo valente giovane,
               acquista in bellezza quello che perde talvolta in drammaticità
               ed esagerazione dell'elemento patologico. Questa sua veduta di
               Parigi, per esempio, così quadrata, (chè l'elemento geometrico
               o geometrizzante, tende a scarnificare e presentare nella sua
               naturale crudezza quello che è essenziale nella architettura
               parigina) così resa nella sua essenza può facilmente indurti a
               credere che sia abitata da una strana umanità. Ed è ben strana,
               pur nei suoi caldi accenti umani, l'umanità appunto, che sorge
               attraverso le linee di mestiere del pittore Bruzzi. Un'umanità
               che diventa talvolta rinoceronte, corazzato in maniera
               incredibile senza possibilità di sensazioni o pentimento, ma hai
               appena preso confidenza con quella scorza rude ed infingarda che
               scopri un' "occhiolino" indifeso, tenerello, infantile,
               pronto alla compassione ed al pentimento. Insieme al rinoceronte
               coabitano in questa sua Parigi, circondati da chincaglierie fine
               di secolo, poggiate sopra merletti ammuffiti ed ingialliti, il
               suonatore di jazz-band, immerso in una "paradisiaca
               atmosfera" sensualistica che dona un po' della sua luce
               rossa e delle magnifiche donne nude, degne di un paradiso
               perduto. Al piano di sotto o nella casa accanto, c'è
               l'intellettuale smarrito che ricerca disperatamente i temi di una
               perduta ispirazione e getta nel vuoto i suoi pensieri vuoti che
               portati dall'aria avvizzita fuggono attraverso le fessure di una
               porta sconnessa verso la "macina dei sogni". Ernesto Galdi (Presentazione mostra personale
               "Galleria Antares", Roma 1961)
 
 
  Grande cactus (1969, cm.90x70, olio su tela).
 
 
  Siesta (1971, cm. 80x60, olio su tela).
 
 
  Spugna (1977, cm. 120x100, olio su tela).
 
 
  Grande spugna (1973, cm. 135x120, olio su tela).
 
 
  La parete di Giovanni Bruzzi con la Grande spugna, affiancata da due più piccole, alla “Biennale Internazionale d’Arte – 21° Premio del Fiorino” (Firenze, “Fortezza da Basso”, 12 maggio – 24 giugno 1973)
 
 
  Il bustino bianco,(1978, cm. 50x70, olio su tela).
 
 
  I sandali rossi,(1979, cm. 50x70, olio su tela).
 
 
  Paniere di mele (1982, cm. 65x60, olio su tela).
 
 
  Grappolo d'uva e mele (1982, cm. 80x60, olio su tela).
 
 
  Cocomero (1983, cm. 60x80, olio su tela).
  GIOVANNI BRUZZI   Di recente, in arte, qualcosa è
               accaduto. I gusti non sono più quelli - per chi ne aveva o
               fingeva averne - di soddisfatto accoglimento di tutto ciò che
               fosse <<non forme>>
               e soltanto <<non forme>>.
               E se mai ci fu reazione a un'azione, questa della
               pittura sommamente figurata in opposto - si può crederlo - alle
               prodezze astratto-informali ora in retrovia, assegnate ai servizi
               sedentari, è reazione al cento per cento. Magari
               eccessiva, magari, come dicono i chimici, al <<rosso
               tornasole>>; cioè, chimicamente <<acida>>,
               violenta in se stessa e tale per troppo interesse alla forma
               rifinita a cui vengono persino attribuite delle velleità
               sostitutive: il vero del circostante, qual'è collocato
               ingannevolmente nel quadro; insomma, il classico trompe-l'oeil.
               Per quanto tutto ciò abbia a dirsi anche in relazione a quel che
               fa, dipinge il fiorentino Giovanni Bruzzi (giacchè le tesi
               generali non possono avere, criticamente, pesi e misure diverse)
               c'è però da obiettare che nei dipinti di Bruzzi la realtà
               liscia, la figura e l'immagine veritiere sono alla fin fine dei media
               per conseguire lo scopo. Il quale è quello della inclinazione al
               surreale, ch'è pur sempre a modo suo e in genere lo
               scavalcamento della realtà, il suo <<evitarla>>...
               dipingendola per eccesso. Ed è proprio quest'<<eccesso>>
               che si pone in chiave spirituale, che soprastà al fatto
               riproduttivo in quanto ha sopra di sè un quid di
               trasognatamente cristallino, inesistente in natura. Osserviamo il
               batterista, questo ministro del jazz sincopante, osserviamo i
               gladiatori redivivi, la verza sul piano del tavolo in fòrmica
               bianca, i carciofi, la nudità femminile vista da tergo,
               l'incantato uomo: simbolo puro, metafisico, della condanna divina
               d'Adamo (<< ... e tu lavorerai...
               guadagnerai il pane tuo con il sudore della fronte... >>).
               Sono raffigurazioni dipendenti da un linguaggio, da uno stile haché,
               conciso a dispetto delle apparenze, chiaro, con il suo <<fissativo>>
               che trasforma tutto, gli umani, gli oggetti, i fiori, gli alberi
               forcelluti spogli e serpigni, in un mondo di cose vetrine e però
               non vetrificate. Non siamo, attenzione, al livello del Musée
               Grevin; non è, voglio dire, la pittura di Giovanni Bruzzi
               alla condizione ghiacciamente espressiva della
               pittura-statue-cera; ne siamo ben distanti. Dove, sì, la vita
               può fermarsi un attimo, perchè la si possa cogliere nei suoi
               aspetti magici, forse infantasticabili - così come invece
               appaiono in Bruzzi - quali i poeti e i sognatori vorrebbero
               tuttavia fossero in essa; siamo comunque al sogno, non, comunque,
               alla vita in letargo. Per arrivare a questo stato di
               qualificazione dipinta occorre aver mano al disegno, al colore,
               al mestiere; attitudine alla immaginazione, che dura fatica a
               insinuarsi là, quando la forma oggettiva vi si opponga,
               quando il far parlare un dipinto diventa problema di significati
               epidermici che strappino a sé, fuori, i significati più
               interni. E va saputo altresì che con le magie cennate, con i
               ritratti di ragazze dagli occhi rapaci, la linea, certe linee
               chiudenti i nudi bloccati nei loro volumi hanno del sottile
               incisivo: la profilatura, a taglio di rasoio. Si vorrebbe, qui,
               spostare il discorso su di un altro polo: quello di un
               complementare espressionismo linearistico, in Bruzzi evidente. Si
               vorrebbe; ma questa paginetta non va condotta oltre i limiti del
               biglietto da visita tradizionale, della semplice presentazione al
               pubblico di un pittore, ch'espone adesso, per la prima volta, a
               Milano. Mario Portalupi (Presentazione mostre personali:
               "Galleria Barbaroux", Milano 1964; "Galleria
               Spinetti", Firenze 1966)
 
 
  Arlecchino (1986, cm. 50x60, olio su tela).
 
 
  Pulcinella,(2005, cm.60x80, olio su tela).
 
 
  Picchio (1985, cm. 50x60, olio su tela).
 
 
  Conchiglie (1983, cm. 70x50, olio su tela).
  GIOVANNI BRUZZI   A cinque anni di distanza dalla sua
               prima personale a Milano il pittore fiorentino Giovanni Bruzzi ne
               ordina un'altra. In questo lasso di tempo, attraverso numerose
               mostre individuali e collettive in Italia, ha ottenuto vivi
               consensi di pubblico e di critica. Pronipote di Stefano Bruzzi,
               celebrato animalista della seconda metà dell'Ottocento, già
               dalla passata esibizione milanese si potè notare come il giovane
               artista non apparisse in alcun modo legato a quella tradizione
               naturalistica e romantica nel cui ambito aveva agito e si era
               distinto il suo famoso parente. Piuttosto la sua pittura il pur
               necessario contatto col passato - si è sempre figli di qualcuno,
               altrimenti non si esiste - lo stabiliva, e lo stabilisce, con una
               sfera più lontana nel tempo del secolo scorso e più aurea: il
               Quattrocento: e se proprio sono da citare nomi, farei quelli di
               Piero e di Paolo Uccello. Dunque egli si rifaceva a una pittura
               che alla realtà guarda si ma con il lucido occhio
               dell'intelletto, una pittura <<cosa
               mentale>> secondo la definizione
               leonardesca e che nella rigorosità e astrazione della
               metamorfica interpretazione del dato naturale proposto dalle
               apparenze sensibili del mondo fisico insita nell'arte, si basava
               anzitutto su quel mezzo di indagine della forma che è il
               disegno. E il disegno, come la prospettiva e il colore, sono
               ancora i presupposti del linguaggio di Bruzzi. Egli però mentre
               tendeva precedentemente a una sorta di realismo oggettivo, non
               senza una accentazione analitica e ottica nel presentare nitido e
               misurato il motivo pittorico prescelto, mi sembra abbia reso poi
               più concentrati e asciutti i modi espressivi come lessico e
               sintassi, al tempo stesso aprendo in senso più fantastico e
               venato di metafisico la narrazione. Perchè Bruzzi è un
               narratore di tono singolare che attraverso il disegno e il colore
               adoperati con padronanza di mezzi tale da consentirgli un
               discorso plastico preciso e incisivo, tende a rivelarci la vita
               segreta di ciò che lo colpisce e stimola la sua fantasia. Questo
               lo porta a essere, come in arte è giusto sia, oggettivo e
               insieme soggettivo: a individuare la realtà fisica e trasporla
               su un piano metafisico, cioè spogliato del contingente, ideale,
               poetico. Il tema per lui può essere una semplice pianta di
               cactus della quale egli ci dà una immagine essenziale, nitida,
               emblematica, posta in relazione con la superficie afra di una
               spiaggia orlata all'orizzonte dal mare. E appunto l'architettura
               della pianta, variata contro l'uniforme piano sabbioso dà
               occasione di racconto, per via naturalmente visiva, che si carica
               di sensi segreti, per esempio un misterioso sapore come araldico.
               Può essere invece una figura di donna che in virtù di
               atteggiamento, di un disegno il quale trova sempre la linea
               esatta nella realizzazione della sintesi dell'insieme complesso
               dei piani, nel colore messo con sottigliezza di variazioni tonali
               e chiaroscurali, si fa immagine di tono diverso suggerito da
               altri contenuti, è insomma racconto differente dal primo come
               spirito e palpito. In uno stile però eguale, con una eguale
               rispondenza tra visione e inventiva, che si carica in modo eguale
               di metafisico. Si potrebbe continuare per sottolineare l'evidenza
               di un cammino nel quale l'individuabilità dell'artista, il suo
               sostrato fantastico e culturale, la sua conoscenza dei problemi
               del disegno e del colore si dispiegano e si evolvono con coerenza
               e con distintivi caratteri. Ma piuttosto credo che sia opportuno
               segnalare come in un grande e recente quadro <<Il
               batterista>> si verifichi una
               ulteriore intensificazione dei valori propri del mondo interiore
               e della pittura di Bruzzi; ciò attraverso un approfondimento in
               direzione compositiva, cromatica, tonale e uno scatto della
               immaginazione che immettono un particolare lirismo, fermentante
               di vitalità nei risultati. Questo quadro in confronto dei
               precedenti è forse meno assorto e allusivo, ma senza rinunziare
               alla sostanziale <<metafisicità>> della visione di
               Bruzzi e alla plasticità del suo stile espressivo mi sembra più
               allucinato, più significante come pittura e narrazione, più
               immediatamente comunicativo in fatto di contenuti e forma.
               Suppongo che questo dipinto sia l'inizio di una fase nuova nella
               evoluzione dell'artista e un suo passo avanti. Passo suscettibile
               di altri fecondi risultati per questo pittore nativamente dotato,
               ricco di fantasia e cultura, che sa essere moderno senza
               rinnegare la tradizione dalla quale proviene, che sa affermare
               persuasivamente la propria personalità, la propria autonoma
               fisionomia, il proprio modo di essere pittore e artista, senza
               seguire le mode passeggere, gli andazzi di un conformismo che si
               camuffa da spregiudicata avanguardia. Mario Lepore (Presentazione mostra personale
               "Galleria Cocorocchia", Milano 1969)
 
 
   Treccia d'agli (1982, cm. 50x70, olio su tela).
 
 
   Nautilus (1984, cm. 50x70, olio su tela).
 
 
   Ramo di diosperi (1984, cm. 50x70, olio su tela).
 
 
   Boccia e conchiglia (1985, cm. 50x70, olio su tela).
 
 
  Vaso con gladiolo e lume a petrolio (1985, cm. 70x90, olio su tela).
 
 
  La grande zuppiera di rame (1984, cm. 90x80, olio su tela).
 
 
  Il Budda di maiolica (1989, cm. 70x90, olio su tela).
 
 
   Manifesto.
 
   Manifesto.
 GIOVANNI BRUZZI 
 Qual'è stato realmente il panorama
               della pittura a Firenze negli ultimi vent'anni? In uno schema
               affrettato (nipotini di Rosai, <<astrattisti
               classici>>, e tutti i giovani che
               appartennero a quella incredibile fucina di possibilità che fu
               il Numero di Fiamma Vigo) si devono sempre aggiungere tasselli e
               tessere per far quadrare un mosaico che per sua natura e fortuna
               è destinato a non quadrare. Se, come si annuncia da tempo,
               verrà fatta una mostra ricapitolativa di questa situazione se ne
               vedrebbero in maniera palmare gli spunti originali ed imprevisti;
               almeno che non si procedesse secondo una prassi abbastanza
               usuale, quella cioè di ripescare i recipienti delle <<tendenze>>
               internazionali per infilarci dentro, arrampicandosi sugli
               specchi, la vitalità di tanti giovani che a tale tendenze
               concedevano solo un interesse di partenza. Il caso di Giovanni
               Bruzzi è poi addirittura esemplare; dopo un breve apprendistato
               scolastico ancora di lontana e contraffatta ascendenza careniana
               (e chi, prima di uscire da accademie o scuole d'arte, sino a
               pochi anni fa se ne è salvato?) Bruzzi si è subito scelto un
               terreno di ricerca assolutamente controcorrente. Erano gli anni
               nei quali l'esperienza <<informale>>
               sembrava necessaria per bruciare le scorie di una tradizione
               asfittica e incartapecorita per mancanza di reale dialettica. Si
               pensò di esorcizzare con la fiamma ossidrica della <<gestuazione
               prerazionale>> una <<razionalità>>
               da tempo divenuta di marzapane. Le conseguenze, positive o
               negative le conosciamo tutti; non si può dire certamente che si
               sia in realtà dissolto il tarlo accademico se si guarda
               all'insopportabile accademia ripescata (ma sempre polemicamente!)
               in anni recentissimi da molti di quei giovani d'allora. Bruzzi,
               dicevamo, si scelse un discorso completamente suo, anche se
               ovviamente non sradicato dalla storia delle immagini che veniva
               indagata per proporre necessari precedenti lessicali al proprio
               linguaggio. Compì cioè quasi una depurazione, una dissoluzione
               acida di quel processo di illanguidimento tonale con cui per
               molti anni del novecento si era creduto attraverso un preteso
               cezannismo, di guardare alla <<tradizione
               quattrocentesca>>. Tornò all'antico
               con la caparbietà appuntita di un giovane che crede di poter
               distruggere dentro di sé retaggi e tramiti secolari; e
               addirittura per evitare il quattrocentismo di maniera espatriò e
               andò a Parigi. Luogo comune, sembrerebbe; ma a Parigi Bruzzi
               ignora proprio tutto quanto può vedere dall'impressionismo ai
               nostri giorni, e dell'aria parigina si serve come di una sorta di
               <<zona di vuoto>>
               entro la quale poter compiere senza paura di <<provincialismi>>,
               un discorso che a Firenze gli sarebbe stato rinfacciato come <<reazionario>>.Cominciano
               così a definirsi quelle strutture accanitamente modulari che
               dovranno rimanere alla base di tutta la futura attività
               dell'artista. Quello che ci fa maggiormente meraviglia è che sin
               dall'inizio alcuni aspetti di questa <<operazione>>
               sono fortemente vicini ad una recente esperienza storica che
               Bruzzi al momento non conosceva; e cioè allo sfocio estremo di
               uno degli aspetti di <<Valori
               plastici>> che soprattutto nelle
               opere di Edita Broglio dal '30 in poi assume una fisionomia di
               lucida intellettualità neoquattrocentesca; un'esperienza che,
               d'altra parte, era ben lontana dai programmi di <<ritorno
               all'ordine>> o di <<novecento>>
               che invischiarono le mani già rattrappite di tanti pur celebri
               pittori che nel <<quattrocento>>
               non sapevano vedere altro che una inesauribile fonte di <<lucidi>>
               su mele, pere, tazzine da caffè ed altra bigiotteria casalinga.
               Anche Bruzzi adopera tutta la sequela degli ortaggi funesti, ma
               come cristallizzazione, ai limiti ironica, di un modulo che nel
               suo stesso iterarsi perde qualsiasi compiacimento descrittivo. I
               colori, privi di tonalità sono accostati per contrasto, tesi
               come panni elastici sopra i quali gli oggetti rimbalzano entro
               traiettorie previste. Il rapporto tra limite della tela e
               andamenti proporzionali rimane quasi sempre inalterato; ad un
               espandersi dei primi segue l'addizionarsi dei secondi con una
               consequenzialità che può sfiorare il monumentale. E' in queste
               opere di più vaste dimensioni, infatti, che Bruzzi cerca più
               apertamente il ricorso ai moduli <<antichi>>;
               e rimanda con programmatica esemplarità agli schemi anatomici
               del Signorelli, alla loro modulazione ipertesa entro piani di
               colore agghiacciati. Al pericolo del monumentale Bruzzi reagisce
               poi tentando una radicale operazione di distacco emotivo dal
               soggetto. Il processo diviene di oggettivazione-iperbole, anche
               se passa per tramiti culturali che vanno dalla cosiddetta <<nuova
               oggettività>> (e relativi
               fraintendimenti <<neorealisti>>)
               sino ad un ritorno, forse istintivo, al Rosai <<grande>>
               quello delle <<Toppe>>
               oscure, giocate tra giganti incupiti di tragedia. E non si vuol
               con questo indicare quel volontario <<omaggio
               a Rosai>> che il pittore ha dipinto
               in un quadro che a punto delle <<Toppe>>
               riprende il soggetto. In quest'opera le citazioni rosaiane
               divengono schemi fisiognomici e sono quasi esorcizzate in un
               contesto che alla radice stessa è lontano le mille miglia dal
               doloroso neomasaccismo del Maestro. Nelle opere dal '70 in poi si
               è andata sempre di più accentuando questa necessità di ridurre
               il soggetto a elemento totalmente emblematico; di qui la
               giustificazione della <<serie>>
               e del processo iperbolico a cui spesso l'oggetto rappresentato
               viene sottoposto. In questo senso è particolarmente indicativa
               appunto la lunga serie dei <<Cereus>>
               nella quale, forse con maggior evidenza che in altre opere,
               attraverso il farsi della rappresentazione si arriva a dissolvere
               quasi completamente la forma oggettiva e a proporne solamente
               alcuni andamenti simbolici. Sembra che Bruzzi, pur giunto alla
               sua piena maturità , tema ancora il rapporto pittorico <<tradizionale>>
               con l'oggetto e implacabilmente rintuzzi tutti gli elementi
               emotivi che la sua abilità tecnica e lo stesso tipo di
               approccio, quasi fabulistico, con la propria realtà figurale gli
               consentirebbero. E' un processo di ibernazione della forma
               attraverso il quale si compie più facilmente, senza timore di
               concessioni descrittive, la ricerca del senso storico di quella
               forma stessa; questo mi è risultato particolarmente evidente in
               una serie di <<insegne>>
               (non presenti a questa mostra), nelle quali pur sopravvivendo
               dell'immagine solamente lo schema metrico o divenendo essa vero e
               proprio ideogramma di un necessario ulteriore alfabeto (la serie
               stessa), il pittore raggiunge proprio dalla tensione narrativa
               risultati particolarmente felici. Non si rischi perciò di
               equivocare il linguaggio di Bruzzi con le recenti poetiche
               neofigurative, neoaccademiche o iperrealiste. A parte la più che
               decennale continuità della ricerca, è il rinvenimento della
               cadenza metrica di una particolare storia figurativa scelta come
               implacabile precedente, e non la descrizione dell'oggetto come
               dissensata epifania, che caratterizza e qualifica al di fuori dei
               <<casi>>
               mercantili il linguaggio così disagevole di questo artista. Raffaele Monti (Presentazione mostra personale
               "Galleria Menghelli", Firenze 1973)
 
 
  Iris (1988, cm. 50x70, olio su tela).
 
 
  Spaventapasseri (1998, cm. 70x90, olio su tela).
 
 
  Il gatto nero (2000, cm. 50x60, olio su tela).
 
 
 
  Artisti per il disarmo: Giovanni Bruzzi, La guerra insidia sempre la pace (1987, cm. 50x70, tecnica mista su cartone bianco) e Alberto Moravia, Forse preferirebbe un bambino (autografo direttamente sull'opera pittorica).
 
 
  Palio eseguito da Giovanni Bruzzi per il Comune di Massa Marittima nel 1991.
 
  Il palio di Giovanni Bruzzi viene portato in corteo nella sfilata tradizionale, prima della gara del “Balestro del Girifalco” (11 agosto 1991).
  I CICLOPI DI BRUZZI   Tra le stravaganti tematiche
               prescelte da Giovanni Bruzzi quella dei ciclopi risulta la più
               caratteristica con ruolo di fil rouge che attraversa in
               pratica tutto l'arco evolutivo della sua ricerca pittorica, il
               primo esempio risalendo al 1960.Questo tema ha recentemente
               registrato un notevole incremento con l'accentuarsi della
               determinazione poetica dell'artista in area fantastica. Sarebbe
               tuttavia grave imprecisione e poco rispettosa superficialità
               verso la serietà e l'impegno del suo lavoro considerare le
               tematiche prescelte come dato caratteristico decisivo della sua
               eccentricità. L'originalità di Bruzzi si svolge più a fondo, a
               livello di uso degli strumenti e del linguaggio. Egli pratica una
               pittura solo apparentemente semplice ma in realtà complessa, di
               velature sovrapposte che sono il segreto delle fini tonalità
               ritrovate, trasparenti, dalle stesure accurate, tessute
               pazientemente che, alla fine, offrono d'acchito l'impressione
               della tinta piatta. Ma all'occhio esperto non sfugge la qualità
               della materia, derivata dalla fusione di mezzi toni, che riesce
               luminosa e cromaticamente insolita. Bruzzi recupera il segno
               della quattrocentesca pittura Toscana e ne assorbe la facoltà di
               sintesi. I suoi dipinti, infatti, si notano anche per la drastica
               riduzione delle connotazioni descrittive. Le forme, pur
               mantenendo intatto l'aspetto denotativo, sono come limate,
               prosciugate da ogni decorativismo, impoverite al massimo d’ogni
               sovrastruttura descrittiva, raggiungendo una secchezza fredda
               benchè - e questo è alquanto atipico - la sensazione non possa
               riferirsi a spezzature della linea o geometrismi della forma
               totalmente assenti nei dipinti di Bruzzi in cui domina, invece,
               la linea ondulata con dolci andamenti. L'originalità di questo
               pittore è dunque da ricercare anche nel suo porsi sul piano
               esecutivo come indipendente da ogni situazione di gruppo o di
               tendenza, assolutamente isolato, assolutamente originale. Alla
               base dei suoi ciclopi, e lo si afferma senza la certezza di una
               conferma peraltro probabile, vi è il celebre quadro di Odilon
               Redon (al Rijksmuseum Kroller-Müller di Otterlo, in Olanda),
               un'immagine cara e ben nota a tutti i pittori di formazione
               surrealista o comunque visionaria. E' un dato culturale che può
               spiegare altri aspetti della pittura del Bruzzi che qui non
               intendiamo indagare. In questo quadro il ciclope si affaccia da
               un dirupo ad osservare una ninfa addormentata. Ha uno sguardo
               triste, per nulla allietato dalla vista; come gran parte delle
               opere di Redon esprime un cocente sentimento malinconico. Il suo
               sguardo muove a tenerezza e il suo gigantismo appare come una
               deformità da compiangere e compatire. I dipinti di ciclopi del
               Bruzzi mantengono questa struttura. Tutti s'affacciano dietro un
               piano, che copre il quadro per due terzi. Ma l'atmosfera è assai
               differente. L'occhio del mostro è fisso, allucinato. Più che
               guardare oltre il dirupo sembra spiare, nascondersi, più che
               inquietare sembra egli intimorito da qualcosa che lo preoccupa e
               che si trova al di qua, dalla parte dello spettatore. Rifacendoci
               alla mitologia possiamo considerare che la sorte dei ciclopi non
               fu pacifica. Giulio Romano ha dipinto nel Palazzo Te, a Mantova,
               il crollo rovinoso dei massi olimpici che li dilania e spiaccica.
               Né le loro funzioni quali fabbricanti delle saette di Giove li
               destinano ad una tranquilla area del mito. La loro natura,
               apparentemente violenta per il gigantismo vigoroso delle membra,
               è quella di sopportare invece la violenza altrui. Figli del
               cielo e della terra subivano le intemperanze di genitori in
               perenne dissidio. Alcuni nomi, secondo il più antico dei
               mitologi, sono Arge, Bronte e Sterope, cioè lampo, tuono e
               folgore. Giove ebbe da essi le armi per scacciare Saturno e
               battere i Titani. Callimaco, Ovidio e Virgilio li pongono al
               servizio di Vulcano, l'irascibile dio fabbro, a Lipari e Lenno.
               Per alcuni sono antropofagi (vedi la sanguinosa vicenda di
               Polifemo, accecato da Ulisse), secondo altri si nutrono dei
               frutti della terra incolta. Un'antica tradizione, attribuita a
               Strabone, descrive i ciclopi come costruttori di mura colossali.
               Appena nati, Giove li scagliò nel Tartaro, poveri diavoli! Servi
               di Vulcano erano Bronte che faceva i fulmini, Sterope che li
               teneva sull'incudine, e Piracmone che li batteva. Ma i ciclopi
               anonimi sono un centinaio, e Apollo li sterminò con le sue
               frecce. Secondo i mitologi i ciclopi si distinguono a gruppi:
               quelli di Esiodo sono allegorici, quelli di Omero sono in
               Sicilia; altri rappresentavano vulcani e il loro occhio tondo
               simboleggia il cratere; quelli di Corinto sono considerati
               gl'inventori dell'architettura. E quelli di Bruzzi? Sono, come
               noi, individui timorosi di vedere oltre la siepe, di gettare uno
               sguardo al futuro. Si caratterizzano appena per il copricapo che
               riveste la parte di volto visibile, sull'occhio spaurito. Viene
               alla mente un celebre quadro di Max Ernst dal titolo <<C'est
               le chapeau qui fait l'homme>> (1920,
               Museum of Modern Art a New York): i ceti sociali e le razze si
               deducono dal cappello. E sono una varietà eterogenea, come a
               dire: tutti noi; ci possiamo identificare con l'uno o con
               l'altro. Il diaframma, rupe, paravento, quinta, che li divide
               dall'al di qua è forse una protezione, uno schermo che temono di
               superare per non trovarsi in un ambiente sgradevole,
               probabilmente violento quanto la loro storia di scellerate
               angherie subite per mano dei potenti; ma è anche la parete che
               divide la storia d'ieri da quella d'oggi, ben più temibile al
               loro occhio perchè nel nostro tempo il mito è scomparso ed essi
               non possono vivere che in esso, e divide la fantasia dalla
               realtà, la fiaba del mito dalla vita quotidiana con i suoi
               squallori e privazione d'eroismi, un riparo dalla terribile
               consuetudine di stillante violenza del modus vivendi
               contemporaneo. Il loro occhio, al centro della fronte, esclude
               gli altri due. Ed è col terzo occhio, si dice, che si può
               vedere il futuro e il colore dell'alone che definisce la vera
               natura dell'individuo. Il di qua della barriera, secondo Bruzzi,
               è buio. Comunque non vi si scorgono gradevoli aloni di colore, a
               giudicare dall'espressione della enorme pupilla sbarrata. O
               forse, questi ciclopi, consci della loro diversità, non possono
               superare la barriera costruita dalla normalità? Si tratta di
               un'allegoria della condizione di diverso a cui è condannato
               l'artista solitario? Vi sono mille possibili chiavi di lettura
               per immagini ambigue come queste: e dall'ambiguità deriva gran
               parte del loro fascino. Né si può escludere che, in fondo, la
               magia capziosa di questi dipinti agisca perchè, come dice La
               Fontaine nella sesta fiaba del libro IX, <<L'homme
               est de glace aux vérités, il est de feu pour le mensonge>>.
               Renzo Margonari (Presentazione mostra personale
               "Galleria Comunale", Campobasso 1982)
 
 
  Ciclope negro con feluca (1978, cm. 70x90, olio su tela).
 
 
  Ulisse e Polifemo (1990, cm. 90x130, olio su tela).
 
 
  Il dipinto Ulisse e Polifemo durante l'esecuzione nello studio di Giovanni Bruzzi in via dei Servi 32 a Firenze nel 1990; il modello in posa con in braccio il manichino è Diego, il figlio dell'artista (riconoscibile anche nel dipinto David e Golia del 1983).
 
  Il ciclope Polifemo,(2004, cm.75x100, olio su tela).
 
  UNA PERSONALISSIMA CIFRA DI
               EVOCAZIONE LIRICA   Si può plausibilmente affermare che
               la storia del ritratto coincide pressappoco con la storia
               dell'espressione figurativa, giacchè nessuna civiltà, capace di
               manifestazione artistica, è venuta meno a questo tipo di
               rappresentazione, essendo il genere, fra tutti, quello più
               implicato con la storia del costume e della società, legandosi
               alle credenze religiose ed ai riti che sono, per larga parte,
               all'origine dell'arte, alla mitizzazione dell'eroe e del potente
               di turno. Secondo una definizione canonica, infatti, il
               "ritratto" è la rappresentazione figurativa di una o
               più persone definite e riconoscibili. Tuttavia, non sempre la
               identificazione si attua attraverso la trascrizione realistica
               dei tratti fisionomici (come avviene per lo più nel
               "ritratto" occidentale dal Rinascimento all'Ottocento)
               o attraverso elementi esterni quali il costume, l'ambiente,
               particolari attributi relativi al personaggio (che hanno un ruolo
               fondamentale nel ritratto cosiddetto "idealizzato" o
               "immaginario", orientato soprattutto verso la resa di
               un "tipo"), ma attraverso la rappresentazione di
               fisionomie "arbitrarie", le quali, ancorchè ben
               caratterizzate, non si studiano di ripetere veristicamente i
               tratti somatici, né tantomeno la fisionomia, ma sono puramente
               indicative della persona cui si riferiscono. Ebbene, sin da una
               lettura d'acchito, ci pare che la serie di "ritratti"
               femminili che Giovanni Bruzzi offre alla nostra attenzione (e che
               si propone come l'unica costante tematica nel variegato mosaico
               della sua sensibilità pittorica, assumendone conseguentemente il
               ruolo di una interessante koiné espressiva) possa farsi risalire
               proprio all'ambito di quest'ultima tipologia figurativa,
               sembrandoci l'attenzione dell'artista prevalentemente rivolta
               più a prefigurarsi una simbologia di determinati valori
               etico-estetici che una pittografia di dati fisici: insomma, più
               a significare il "personaggio" che a rappresentarlo. Si
               tratta, comunque, di un complesso di opere che coprono un lungo
               periodo di tempo (1956-1988) e che, pertanto, denunciano una
               inevitabile "discontinuità" di stile, ma che ci danno,
               nello stesso tempo, la misura di una evoluzione artistica
               costantemente in progress, di un travaglio di scelte
               acquisizioni ed accantonamenti metodologici di una notevole
               importanza didattica per chi desideri accostarsi, sul piano
               ermaneutico, alla produzione del Nostro; a cominciare dalle
               fonti, che sono fonti inequivocabilmente classiche e per le quali la
               citazione di nomi come quelli di Raffaello, Bronzino, Ingres è
               addirittura d'obbligo. In realtà, è soprattutto al rigoroso
               purismo del maestro d'Oltralpe che l'esperienza di Bruzzi va,
               sotto certi aspetti, ricollegata. Come per Ingres, infatti, anche
               per Bruzzi il disegno non è mai astratto e schematico, ma
               rivela, in un'acuta e tesa sensibilità, una volontà espressiva
               solo apparentemente priva di emozioni, le quali si fanno invece
               intime e contenute nel senso del ritmo e della elezione formale.
               Il Nudo voltato del 1964, ad esempio, con la sua calma
               fattura, non smentisce di essere figlio del grande artista
               francese. Per esso anzi (inevitabile il richiamo al nudo di
               schiena della Grande baigneuse, così intoccabile nella
               sua purezza raffaellesca da spegnere ogni velleità sensuale),
               vien quasi voglia di invocare meno finitezza e bravura (magari un
               maggiore scarto di mano) che lo riportassero dal suo nitido algore
               ad una più confidenziale tiepidezza (alla realtà, infine, della
               vita terrena), anzichè tendere, come pare, a divenire una figura
               di sapore mitologico. A ben guardare, tuttavia, ci pare che
               proprio in quelle opere nelle quali può apparire che i modelli
               ispirativi risaltino con maggiore evidenza, sono presenti alcune
               delle soluzioni successive. Il colore tende ad uno smalto più
               vivo, i contrasti a diventare più crudi e piatti, l'ombra ad
               abolirsi per effetto di una luminosità assoluta, il disegno ad
               illimpidirsi ed a farsi meno sorvegliato. Pur restando fedele ad
               una visione plastica e volumetrica, specchio di una concezione
               unitaria ed architettonica della realtà, Bruzzi non dimostra
               più di avvertire il valore costruttivo della linea, ed anche
               quando ne marca la preminenza e la torsione, essa serve
               unicamente per serrare in zonature curve la larga timbratura dei
               colori puri. Inoltre, la fedeltà naturalistica in queste figure
               viene man mano accantonata. Si cerca piuttosto un rapporto
               speciosamente "allucinatorio" di spazi e di colori e se
               ne amplificano gli effetti rifiutando l'illusione della
               profondità prospettica e collocando le figure (o parti di esse)
               secondo un ritmo lineare e cromatico. L'ombra, la luce, il tono
               sono ormai cifre antiveriste. Le corrispondenze tra le forme ed i
               colori si rivelano ispirati da motivi razionali, oggettivi: una
               ispirazione pittorica che cerca di cogliere, tra colore e colore,
               assonanze geometriche. Il disegno traccia, perciò, arabeschi
               rigidi ed il colore si espande a riempire vuoti con il risultato
               di pezzature cromatiche a contrasti complementari. E' il momento,
               insomma, della concisione stilistica e la sinteticità
               dell'espressione ottiene effetto visionario, elementare,
               primitivo, violento nella sua simbologica allusione.
               Parallelamente acquista sempre più rilevanza una trasparenza
               strutturale di tipo "fotografico", come se la vocazione
               di Bruzzi, da una visione mediata, sia andata, lentamente e
               consapevolmente, specializzandosi in una rappresentazione
               immediata, com'è tipico appunto dell'approccio fotografico.
               D'altra parte, questa "serva della scienza e delle
               arti" (come aveva proposto Baudelaire, in una emarginazione
               che dura tuttora, a centocinquant'anni dalle prime esperienze e
               dopo un travolgente processo di sviluppo tecnologico che ha fatto
               della fotografia un irrinunciabile medium comunicativo ed
               informativo), era già entrata (e, non di rado, clandestinamente)
               nello studio di pittori come Corot, Courbet, Delacroix, Degas,
               Michetti, ecc., quale modello da ricalcare e trasferire a piacere
               sulla tela, con un suo codice specifico, influendo decisamente
               sul lavoro del pittore, indotto via via ad adeguarsi sotto gli
               stimoli dell'iconografia fotografica sempre più invadente: fino
               agli esiti metropolitani, iperrealistici ed antiutopistici della
               Pop Art, di cui Bruzzi mostra di apprezzare almeno la presa di
               coscienza, diretta ed immediata, del reale nella sua prima vitale
               proposizione. In tal senso, ci pare che il perno intorno al quale
               ruota tutto il lavoro di "ritrattista" di Bruzzi (e
               diciamo "ritrattista" ovviamente nell'accezione
               antispecifica descritta in limine) possa essere identificata col
               senso della immagine chiusa, persino stringata nei suoi valori di
               evidente plasticità, dove, con accenni di ricomposizione
               "astigmatica" della figura, la stessa sottigliezza del
               disegno e il forte risalto cromatico aiutano la solida
               essenzialità dei volumi. Si tratta sempre, come si è accennato,
               di un atteggiamento siglato da un forte sincretismo di influenze,
               da una notevole larghezza di suggestioni culturali, in cui però
               sorprende la capacità, da Bruzzi posseduta in sommo grado, di
               piegare complessi contributi figurativi ad una personalissima
               cifra di evocazione lirica, come sorprende il fatto che egli
               abbia saputo attingere ad una cultura figurativa persino
               contraddittoria (che va dai Quattrocentisti toscani ai grandi
               "ritrattisti" della Rinascenza), senza subire
               sbandamenti o deviazioni apprezzabili dai suoi ideali itinerari
               stilistici. Di tutti questi dati culturali, infatti, la sua
               memoria distilla, anzi ricrea, una immagine singolarissima,
               maturata in una libertà inventiva assoluta, di asciutta
               liricità che non impedisce anche una confessione sentimentale.
               Il suo algore stilistico, di cui abbiamo parlato, sembra
               anzi mitigato da una commozione affettuosa, da una sottilissima
               tristezza, da uno slancio verticale ed energico della linea che
               ha il potere di comunicare il senso di una tensione dolorosa, nei
               termini di un rifiuto d'ogni peso culturale e di un raccordo
               dell'immagine ad una coincidenza più intima e spontanea; ed
               anche quando la linea, così rigidamente musicale, così
               categorica nei tracciati dei profili curvi, sembra voglia
               rinverdire l'arabesco prezioso più raffinato non perde mai quel
               carattere energico di plasticità, di figura emergente,
               monumentale persino: quel senso, in definitiva, di volume pieno
               che domina ogni sua figura e che stabilisce anche il vero
               carattere della sua visione complessiva della realtà. Pietro Civitareale (Presentazione catalogo "Figure
               femminili", Edizioni Poesiarte, Firenze 1988)
 
 
  Ragazza nuda seduta (1967, cm. 64x74, olio su tela).
 
 
  Maternità (1968, cm. 50x60, olio su tela).
 
 
  Donna che si spoglia (1969, cm. 40x60, olio su tela).
 
 
  Gli occhiali rossi (1981, cm. 50x40, olio su tela).
 
 
  Gli occhiali rosa,(1982, cm. 50x60, olio su tela).
 
 
  Gli occhiali rossi,(1983, cm. 50x60, olio su tela).
 
 
  Gli occhiali verdi,(1983, cm. 50x60, olio su tela).
 
 
  Gli occhiali viola (1985, cm. 50x60, olio su tela).
 
 
   Donna che si pettina (1982, cm. 70x90, olio su tela).
 
  Locandina 1.
 
 
  Locandina 2.
 
 
  Locandina 3.
 
 
  Locandina 4.
 
 
   Jolly Joker (2000, cm. 70X80,olio su tela).
 
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