Nudo velato,(1958, cm. 50x60, olio su tela).



Manifesto.



Nudo voltato,(1964, cm. 90x58, olio su tela).


Vaso con fiori (1965, cm. 80x110, olio su tela).


Crocifissione (1965, cm. 75x95, olio su tela). Opera collocata nella Chiesa del Sacro Cuore di Prato.

GIOVANNI BRUZZI

Tra i giovani della presente generazione, una particolare attenzione merita il fiorentino Giovanni Bruzzi. Egli parte da considerazioni metafisiche per giungere gradualmente ad una sorta di linguaggio surrealista, che non trova riscontri in tendenze e scuole italiane contemporanee. Detto questo che serve ad evitare troppo facili classificazioni, dobbiamo necessariamente porre gli accenti sugli aspetti più genuini dell'arte del Bruzzi. Gli è che, convinto da Paolo Uccello che la realtà alla quale ispirarsi deve necessariamente essere tradotta in linguaggio poetico e quindi fuori del reale, si è andato man mano accostando a certi moduli, proposizioni e programmi più comuni e connaturati alla pittura tedesca d'avanguardia (che fa del surreale o del metafisico anche quando usa un linguaggio astratto) ed a certi artisti più cosmopoliti tipo Salvador Dalì e Leonor Fini. Il contenuto, il dato intellettualistico è luogo scontato ed acquisito. Tuttavia, questa pittura, attraverso la visione di questo valente giovane, acquista in bellezza quello che perde talvolta in drammaticità ed esagerazione dell'elemento patologico. Questa sua veduta di Parigi, per esempio, così quadrata, (chè l'elemento geometrico o geometrizzante, tende a scarnificare e presentare nella sua naturale crudezza quello che è essenziale nella architettura parigina) così resa nella sua essenza può facilmente indurti a credere che sia abitata da una strana umanità. Ed è ben strana, pur nei suoi caldi accenti umani, l'umanità appunto, che sorge attraverso le linee di mestiere del pittore Bruzzi. Un'umanità che diventa talvolta rinoceronte, corazzato in maniera incredibile senza possibilità di sensazioni o pentimento, ma hai appena preso confidenza con quella scorza rude ed infingarda che scopri un' "occhiolino" indifeso, tenerello, infantile, pronto alla compassione ed al pentimento. Insieme al rinoceronte coabitano in questa sua Parigi, circondati da chincaglierie fine di secolo, poggiate sopra merletti ammuffiti ed ingialliti, il suonatore di jazz-band, immerso in una "paradisiaca atmosfera" sensualistica che dona un po' della sua luce rossa e delle magnifiche donne nude, degne di un paradiso perduto. Al piano di sotto o nella casa accanto, c'è l'intellettuale smarrito che ricerca disperatamente i temi di una perduta ispirazione e getta nel vuoto i suoi pensieri vuoti che portati dall'aria avvizzita fuggono attraverso le fessure di una porta sconnessa verso la "macina dei sogni".

Ernesto Galdi
(Presentazione mostra personale "Galleria Antares", Roma 1961)


Grande cactus (1969, cm.90x70, olio su tela).



Siesta (1971, cm. 80x60, olio su tela).



Spugna (1977, cm. 120x100, olio su tela).



Grande spugna (1973, cm. 135x120, olio su tela).



La parete di Giovanni Bruzzi con la Grande spugna, affiancata da due più piccole, alla “Biennale Internazionale d’Arte – 21° Premio del Fiorino” (Firenze, “Fortezza da Basso”, 12 maggio – 24 giugno 1973)



Il bustino bianco,(1978, cm. 50x70, olio su tela).



I sandali rossi,(1979, cm. 50x70, olio su tela).



Paniere di mele (1982, cm. 65x60, olio su tela).



Grappolo d'uva e mele (1982, cm. 80x60, olio su tela).



Cocomero (1983, cm. 60x80, olio su tela).

GIOVANNI BRUZZI

Di recente, in arte, qualcosa è accaduto. I gusti non sono più quelli - per chi ne aveva o fingeva averne - di soddisfatto accoglimento di tutto ciò che fosse <<non forme>> e soltanto <<non forme>>. E se mai ci fu reazione a un'azione, questa della pittura sommamente figurata in opposto - si può crederlo - alle prodezze astratto-informali ora in retrovia, assegnate ai servizi sedentari, è reazione al cento per cento. Magari eccessiva, magari, come dicono i chimici, al <<rosso tornasole>>; cioè, chimicamente <<acida>>, violenta in se stessa e tale per troppo interesse alla forma rifinita a cui vengono persino attribuite delle velleità sostitutive: il vero del circostante, qual'è collocato ingannevolmente nel quadro; insomma, il classico trompe-l'oeil. Per quanto tutto ciò abbia a dirsi anche in relazione a quel che fa, dipinge il fiorentino Giovanni Bruzzi (giacchè le tesi generali non possono avere, criticamente, pesi e misure diverse) c'è però da obiettare che nei dipinti di Bruzzi la realtà liscia, la figura e l'immagine veritiere sono alla fin fine dei media per conseguire lo scopo. Il quale è quello della inclinazione al surreale, ch'è pur sempre a modo suo e in genere lo scavalcamento della realtà, il suo <<evitarla>>... dipingendola per eccesso. Ed è proprio quest'<<eccesso>> che si pone in chiave spirituale, che soprastà al fatto riproduttivo in quanto ha sopra di sè un quid di trasognatamente cristallino, inesistente in natura. Osserviamo il batterista, questo ministro del jazz sincopante, osserviamo i gladiatori redivivi, la verza sul piano del tavolo in fòrmica bianca, i carciofi, la nudità femminile vista da tergo, l'incantato uomo: simbolo puro, metafisico, della condanna divina d'Adamo (<< ... e tu lavorerai... guadagnerai il pane tuo con il sudore della fronte... >>). Sono raffigurazioni dipendenti da un linguaggio, da uno stile haché, conciso a dispetto delle apparenze, chiaro, con il suo <<fissativo>> che trasforma tutto, gli umani, gli oggetti, i fiori, gli alberi forcelluti spogli e serpigni, in un mondo di cose vetrine e però non vetrificate. Non siamo, attenzione, al livello del Musée Grevin; non è, voglio dire, la pittura di Giovanni Bruzzi alla condizione ghiacciamente espressiva della pittura-statue-cera; ne siamo ben distanti. Dove, sì, la vita può fermarsi un attimo, perchè la si possa cogliere nei suoi aspetti magici, forse infantasticabili - così come invece appaiono in Bruzzi - quali i poeti e i sognatori vorrebbero tuttavia fossero in essa; siamo comunque al sogno, non, comunque, alla vita in letargo. Per arrivare a questo stato di qualificazione dipinta occorre aver mano al disegno, al colore, al mestiere; attitudine alla immaginazione, che dura fatica a insinuarsi , quando la forma oggettiva vi si opponga, quando il far parlare un dipinto diventa problema di significati epidermici che strappino a sé, fuori, i significati più interni. E va saputo altresì che con le magie cennate, con i ritratti di ragazze dagli occhi rapaci, la linea, certe linee chiudenti i nudi bloccati nei loro volumi hanno del sottile incisivo: la profilatura, a taglio di rasoio. Si vorrebbe, qui, spostare il discorso su di un altro polo: quello di un complementare espressionismo linearistico, in Bruzzi evidente. Si vorrebbe; ma questa paginetta non va condotta oltre i limiti del biglietto da visita tradizionale, della semplice presentazione al pubblico di un pittore, ch'espone adesso, per la prima volta, a Milano.

Mario Portalupi
(Presentazione mostre personali: "Galleria Barbaroux", Milano 1964; "Galleria Spinetti", Firenze 1966)


Arlecchino (1986, cm. 50x60, olio su tela).



Pulcinella,(2005, cm.60x80, olio su tela).



Picchio (1985, cm. 50x60, olio su tela).



Conchiglie (1983, cm. 70x50, olio su tela).

GIOVANNI BRUZZI

A cinque anni di distanza dalla sua prima personale a Milano il pittore fiorentino Giovanni Bruzzi ne ordina un'altra. In questo lasso di tempo, attraverso numerose mostre individuali e collettive in Italia, ha ottenuto vivi consensi di pubblico e di critica. Pronipote di Stefano Bruzzi, celebrato animalista della seconda metà dell'Ottocento, già dalla passata esibizione milanese si potè notare come il giovane artista non apparisse in alcun modo legato a quella tradizione naturalistica e romantica nel cui ambito aveva agito e si era distinto il suo famoso parente. Piuttosto la sua pittura il pur necessario contatto col passato - si è sempre figli di qualcuno, altrimenti non si esiste - lo stabiliva, e lo stabilisce, con una sfera più lontana nel tempo del secolo scorso e più aurea: il Quattrocento: e se proprio sono da citare nomi, farei quelli di Piero e di Paolo Uccello. Dunque egli si rifaceva a una pittura che alla realtà guarda si ma con il lucido occhio dell'intelletto, una pittura <<cosa mentale>> secondo la definizione leonardesca e che nella rigorosità e astrazione della metamorfica interpretazione del dato naturale proposto dalle apparenze sensibili del mondo fisico insita nell'arte, si basava anzitutto su quel mezzo di indagine della forma che è il disegno. E il disegno, come la prospettiva e il colore, sono ancora i presupposti del linguaggio di Bruzzi. Egli però mentre tendeva precedentemente a una sorta di realismo oggettivo, non senza una accentazione analitica e ottica nel presentare nitido e misurato il motivo pittorico prescelto, mi sembra abbia reso poi più concentrati e asciutti i modi espressivi come lessico e sintassi, al tempo stesso aprendo in senso più fantastico e venato di metafisico la narrazione. Perchè Bruzzi è un narratore di tono singolare che attraverso il disegno e il colore adoperati con padronanza di mezzi tale da consentirgli un discorso plastico preciso e incisivo, tende a rivelarci la vita segreta di ciò che lo colpisce e stimola la sua fantasia. Questo lo porta a essere, come in arte è giusto sia, oggettivo e insieme soggettivo: a individuare la realtà fisica e trasporla su un piano metafisico, cioè spogliato del contingente, ideale, poetico. Il tema per lui può essere una semplice pianta di cactus della quale egli ci dà una immagine essenziale, nitida, emblematica, posta in relazione con la superficie afra di una spiaggia orlata all'orizzonte dal mare. E appunto l'architettura della pianta, variata contro l'uniforme piano sabbioso dà occasione di racconto, per via naturalmente visiva, che si carica di sensi segreti, per esempio un misterioso sapore come araldico. Può essere invece una figura di donna che in virtù di atteggiamento, di un disegno il quale trova sempre la linea esatta nella realizzazione della sintesi dell'insieme complesso dei piani, nel colore messo con sottigliezza di variazioni tonali e chiaroscurali, si fa immagine di tono diverso suggerito da altri contenuti, è insomma racconto differente dal primo come spirito e palpito. In uno stile però eguale, con una eguale rispondenza tra visione e inventiva, che si carica in modo eguale di metafisico. Si potrebbe continuare per sottolineare l'evidenza di un cammino nel quale l'individuabilità dell'artista, il suo sostrato fantastico e culturale, la sua conoscenza dei problemi del disegno e del colore si dispiegano e si evolvono con coerenza e con distintivi caratteri. Ma piuttosto credo che sia opportuno segnalare come in un grande e recente quadro <<Il batterista>> si verifichi una ulteriore intensificazione dei valori propri del mondo interiore e della pittura di Bruzzi; ciò attraverso un approfondimento in direzione compositiva, cromatica, tonale e uno scatto della immaginazione che immettono un particolare lirismo, fermentante di vitalità nei risultati. Questo quadro in confronto dei precedenti è forse meno assorto e allusivo, ma senza rinunziare alla sostanziale <<metafisicità>> della visione di Bruzzi e alla plasticità del suo stile espressivo mi sembra più allucinato, più significante come pittura e narrazione, più immediatamente comunicativo in fatto di contenuti e forma. Suppongo che questo dipinto sia l'inizio di una fase nuova nella evoluzione dell'artista e un suo passo avanti. Passo suscettibile di altri fecondi risultati per questo pittore nativamente dotato, ricco di fantasia e cultura, che sa essere moderno senza rinnegare la tradizione dalla quale proviene, che sa affermare persuasivamente la propria personalità, la propria autonoma fisionomia, il proprio modo di essere pittore e artista, senza seguire le mode passeggere, gli andazzi di un conformismo che si camuffa da spregiudicata avanguardia.

Mario Lepore
(Presentazione mostra personale "Galleria Cocorocchia", Milano 1969)


Treccia d'agli (1982, cm. 50x70, olio su tela).



Nautilus (1984, cm. 50x70, olio su tela).



Ramo di diosperi (1984, cm. 50x70, olio su tela).



Boccia e conchiglia (1985, cm. 50x70, olio su tela).



Vaso con gladiolo e lume a petrolio (1985, cm. 70x90, olio su tela).



La grande zuppiera di rame (1984, cm. 90x80, olio su tela).



Il Budda di maiolica (1989, cm. 70x90, olio su tela).



Manifesto.


Manifesto.

GIOVANNI BRUZZI

Qual'è stato realmente il panorama della pittura a Firenze negli ultimi vent'anni? In uno schema affrettato (nipotini di Rosai, <<astrattisti classici>>, e tutti i giovani che appartennero a quella incredibile fucina di possibilità che fu il Numero di Fiamma Vigo) si devono sempre aggiungere tasselli e tessere per far quadrare un mosaico che per sua natura e fortuna è destinato a non quadrare. Se, come si annuncia da tempo, verrà fatta una mostra ricapitolativa di questa situazione se ne vedrebbero in maniera palmare gli spunti originali ed imprevisti; almeno che non si procedesse secondo una prassi abbastanza usuale, quella cioè di ripescare i recipienti delle <<tendenze>> internazionali per infilarci dentro, arrampicandosi sugli specchi, la vitalità di tanti giovani che a tale tendenze concedevano solo un interesse di partenza. Il caso di Giovanni Bruzzi è poi addirittura esemplare; dopo un breve apprendistato scolastico ancora di lontana e contraffatta ascendenza careniana (e chi, prima di uscire da accademie o scuole d'arte, sino a pochi anni fa se ne è salvato?) Bruzzi si è subito scelto un terreno di ricerca assolutamente controcorrente. Erano gli anni nei quali l'esperienza <<informale>> sembrava necessaria per bruciare le scorie di una tradizione asfittica e incartapecorita per mancanza di reale dialettica. Si pensò di esorcizzare con la fiamma ossidrica della <<gestuazione prerazionale>> una <<razionalità>> da tempo divenuta di marzapane. Le conseguenze, positive o negative le conosciamo tutti; non si può dire certamente che si sia in realtà dissolto il tarlo accademico se si guarda all'insopportabile accademia ripescata (ma sempre polemicamente!) in anni recentissimi da molti di quei giovani d'allora. Bruzzi, dicevamo, si scelse un discorso completamente suo, anche se ovviamente non sradicato dalla storia delle immagini che veniva indagata per proporre necessari precedenti lessicali al proprio linguaggio. Compì cioè quasi una depurazione, una dissoluzione acida di quel processo di illanguidimento tonale con cui per molti anni del novecento si era creduto attraverso un preteso cezannismo, di guardare alla <<tradizione quattrocentesca>>. Tornò all'antico con la caparbietà appuntita di un giovane che crede di poter distruggere dentro di sé retaggi e tramiti secolari; e addirittura per evitare il quattrocentismo di maniera espatriò e andò a Parigi. Luogo comune, sembrerebbe; ma a Parigi Bruzzi ignora proprio tutto quanto può vedere dall'impressionismo ai nostri giorni, e dell'aria parigina si serve come di una sorta di <<zona di vuoto>> entro la quale poter compiere senza paura di <<provincialismi>>, un discorso che a Firenze gli sarebbe stato rinfacciato come <<reazionario>>.Cominciano così a definirsi quelle strutture accanitamente modulari che dovranno rimanere alla base di tutta la futura attività dell'artista. Quello che ci fa maggiormente meraviglia è che sin dall'inizio alcuni aspetti di questa <<operazione>> sono fortemente vicini ad una recente esperienza storica che Bruzzi al momento non conosceva; e cioè allo sfocio estremo di uno degli aspetti di <<Valori plastici>> che soprattutto nelle opere di Edita Broglio dal '30 in poi assume una fisionomia di lucida intellettualità neoquattrocentesca; un'esperienza che, d'altra parte, era ben lontana dai programmi di <<ritorno all'ordine>> o di <<novecento>> che invischiarono le mani già rattrappite di tanti pur celebri pittori che nel <<quattrocento>> non sapevano vedere altro che una inesauribile fonte di <<lucidi>> su mele, pere, tazzine da caffè ed altra bigiotteria casalinga. Anche Bruzzi adopera tutta la sequela degli ortaggi funesti, ma come cristallizzazione, ai limiti ironica, di un modulo che nel suo stesso iterarsi perde qualsiasi compiacimento descrittivo. I colori, privi di tonalità sono accostati per contrasto, tesi come panni elastici sopra i quali gli oggetti rimbalzano entro traiettorie previste. Il rapporto tra limite della tela e andamenti proporzionali rimane quasi sempre inalterato; ad un espandersi dei primi segue l'addizionarsi dei secondi con una consequenzialità che può sfiorare il monumentale. E' in queste opere di più vaste dimensioni, infatti, che Bruzzi cerca più apertamente il ricorso ai moduli <<antichi>>; e rimanda con programmatica esemplarità agli schemi anatomici del Signorelli, alla loro modulazione ipertesa entro piani di colore agghiacciati. Al pericolo del monumentale Bruzzi reagisce poi tentando una radicale operazione di distacco emotivo dal soggetto. Il processo diviene di oggettivazione-iperbole, anche se passa per tramiti culturali che vanno dalla cosiddetta <<nuova oggettività>> (e relativi fraintendimenti <<neorealisti>>) sino ad un ritorno, forse istintivo, al Rosai <<grande>> quello delle <<Toppe>> oscure, giocate tra giganti incupiti di tragedia. E non si vuol con questo indicare quel volontario <<omaggio a Rosai>> che il pittore ha dipinto in un quadro che a punto delle <<Toppe>> riprende il soggetto. In quest'opera le citazioni rosaiane divengono schemi fisiognomici e sono quasi esorcizzate in un contesto che alla radice stessa è lontano le mille miglia dal doloroso neomasaccismo del Maestro. Nelle opere dal '70 in poi si è andata sempre di più accentuando questa necessità di ridurre il soggetto a elemento totalmente emblematico; di qui la giustificazione della <<serie>> e del processo iperbolico a cui spesso l'oggetto rappresentato viene sottoposto. In questo senso è particolarmente indicativa appunto la lunga serie dei <<Cereus>> nella quale, forse con maggior evidenza che in altre opere, attraverso il farsi della rappresentazione si arriva a dissolvere quasi completamente la forma oggettiva e a proporne solamente alcuni andamenti simbolici. Sembra che Bruzzi, pur giunto alla sua piena maturità , tema ancora il rapporto pittorico <<tradizionale>> con l'oggetto e implacabilmente rintuzzi tutti gli elementi emotivi che la sua abilità tecnica e lo stesso tipo di approccio, quasi fabulistico, con la propria realtà figurale gli consentirebbero. E' un processo di ibernazione della forma attraverso il quale si compie più facilmente, senza timore di concessioni descrittive, la ricerca del senso storico di quella forma stessa; questo mi è risultato particolarmente evidente in una serie di <<insegne>> (non presenti a questa mostra), nelle quali pur sopravvivendo dell'immagine solamente lo schema metrico o divenendo essa vero e proprio ideogramma di un necessario ulteriore alfabeto (la serie stessa), il pittore raggiunge proprio dalla tensione narrativa risultati particolarmente felici. Non si rischi perciò di equivocare il linguaggio di Bruzzi con le recenti poetiche neofigurative, neoaccademiche o iperrealiste. A parte la più che decennale continuità della ricerca, è il rinvenimento della cadenza metrica di una particolare storia figurativa scelta come implacabile precedente, e non la descrizione dell'oggetto come dissensata epifania, che caratterizza e qualifica al di fuori dei <<casi>> mercantili il linguaggio così disagevole di questo artista.

Raffaele Monti
(Presentazione mostra personale "Galleria Menghelli", Firenze 1973)


Iris (1988, cm. 50x70, olio su tela).



Spaventapasseri (1998, cm. 70x90, olio su tela).



Il gatto nero (2000, cm. 50x60, olio su tela).




Artisti per il disarmo: Giovanni Bruzzi, La guerra insidia sempre la pace (1987, cm. 50x70, tecnica mista su cartone bianco) e Alberto Moravia, Forse preferirebbe un bambino (autografo direttamente sull'opera pittorica).



Palio eseguito da Giovanni Bruzzi per il Comune di Massa Marittima nel 1991.


Il palio di Giovanni Bruzzi viene portato in corteo nella sfilata tradizionale, prima della gara del “Balestro del Girifalco” (11 agosto 1991).

I CICLOPI DI BRUZZI

Tra le stravaganti tematiche prescelte da Giovanni Bruzzi quella dei ciclopi risulta la più caratteristica con ruolo di fil rouge che attraversa in pratica tutto l'arco evolutivo della sua ricerca pittorica, il primo esempio risalendo al 1960.Questo tema ha recentemente registrato un notevole incremento con l'accentuarsi della determinazione poetica dell'artista in area fantastica. Sarebbe tuttavia grave imprecisione e poco rispettosa superficialità verso la serietà e l'impegno del suo lavoro considerare le tematiche prescelte come dato caratteristico decisivo della sua eccentricità. L'originalità di Bruzzi si svolge più a fondo, a livello di uso degli strumenti e del linguaggio. Egli pratica una pittura solo apparentemente semplice ma in realtà complessa, di velature sovrapposte che sono il segreto delle fini tonalità ritrovate, trasparenti, dalle stesure accurate, tessute pazientemente che, alla fine, offrono d'acchito l'impressione della tinta piatta. Ma all'occhio esperto non sfugge la qualità della materia, derivata dalla fusione di mezzi toni, che riesce luminosa e cromaticamente insolita. Bruzzi recupera il segno della quattrocentesca pittura Toscana e ne assorbe la facoltà di sintesi. I suoi dipinti, infatti, si notano anche per la drastica riduzione delle connotazioni descrittive. Le forme, pur mantenendo intatto l'aspetto denotativo, sono come limate, prosciugate da ogni decorativismo, impoverite al massimo d’ogni sovrastruttura descrittiva, raggiungendo una secchezza fredda benchè - e questo è alquanto atipico - la sensazione non possa riferirsi a spezzature della linea o geometrismi della forma totalmente assenti nei dipinti di Bruzzi in cui domina, invece, la linea ondulata con dolci andamenti. L'originalità di questo pittore è dunque da ricercare anche nel suo porsi sul piano esecutivo come indipendente da ogni situazione di gruppo o di tendenza, assolutamente isolato, assolutamente originale. Alla base dei suoi ciclopi, e lo si afferma senza la certezza di una conferma peraltro probabile, vi è il celebre quadro di Odilon Redon (al Rijksmuseum Kroller-Müller di Otterlo, in Olanda), un'immagine cara e ben nota a tutti i pittori di formazione surrealista o comunque visionaria. E' un dato culturale che può spiegare altri aspetti della pittura del Bruzzi che qui non intendiamo indagare. In questo quadro il ciclope si affaccia da un dirupo ad osservare una ninfa addormentata. Ha uno sguardo triste, per nulla allietato dalla vista; come gran parte delle opere di Redon esprime un cocente sentimento malinconico. Il suo sguardo muove a tenerezza e il suo gigantismo appare come una deformità da compiangere e compatire. I dipinti di ciclopi del Bruzzi mantengono questa struttura. Tutti s'affacciano dietro un piano, che copre il quadro per due terzi. Ma l'atmosfera è assai differente. L'occhio del mostro è fisso, allucinato. Più che guardare oltre il dirupo sembra spiare, nascondersi, più che inquietare sembra egli intimorito da qualcosa che lo preoccupa e che si trova al di qua, dalla parte dello spettatore. Rifacendoci alla mitologia possiamo considerare che la sorte dei ciclopi non fu pacifica. Giulio Romano ha dipinto nel Palazzo Te, a Mantova, il crollo rovinoso dei massi olimpici che li dilania e spiaccica. Né le loro funzioni quali fabbricanti delle saette di Giove li destinano ad una tranquilla area del mito. La loro natura, apparentemente violenta per il gigantismo vigoroso delle membra, è quella di sopportare invece la violenza altrui. Figli del cielo e della terra subivano le intemperanze di genitori in perenne dissidio. Alcuni nomi, secondo il più antico dei mitologi, sono Arge, Bronte e Sterope, cioè lampo, tuono e folgore. Giove ebbe da essi le armi per scacciare Saturno e battere i Titani. Callimaco, Ovidio e Virgilio li pongono al servizio di Vulcano, l'irascibile dio fabbro, a Lipari e Lenno. Per alcuni sono antropofagi (vedi la sanguinosa vicenda di Polifemo, accecato da Ulisse), secondo altri si nutrono dei frutti della terra incolta. Un'antica tradizione, attribuita a Strabone, descrive i ciclopi come costruttori di mura colossali. Appena nati, Giove li scagliò nel Tartaro, poveri diavoli! Servi di Vulcano erano Bronte che faceva i fulmini, Sterope che li teneva sull'incudine, e Piracmone che li batteva. Ma i ciclopi anonimi sono un centinaio, e Apollo li sterminò con le sue frecce. Secondo i mitologi i ciclopi si distinguono a gruppi: quelli di Esiodo sono allegorici, quelli di Omero sono in Sicilia; altri rappresentavano vulcani e il loro occhio tondo simboleggia il cratere; quelli di Corinto sono considerati gl'inventori dell'architettura. E quelli di Bruzzi? Sono, come noi, individui timorosi di vedere oltre la siepe, di gettare uno sguardo al futuro. Si caratterizzano appena per il copricapo che riveste la parte di volto visibile, sull'occhio spaurito. Viene alla mente un celebre quadro di Max Ernst dal titolo <<C'est le chapeau qui fait l'homme>> (1920, Museum of Modern Art a New York): i ceti sociali e le razze si deducono dal cappello. E sono una varietà eterogenea, come a dire: tutti noi; ci possiamo identificare con l'uno o con l'altro. Il diaframma, rupe, paravento, quinta, che li divide dall'al di qua è forse una protezione, uno schermo che temono di superare per non trovarsi in un ambiente sgradevole, probabilmente violento quanto la loro storia di scellerate angherie subite per mano dei potenti; ma è anche la parete che divide la storia d'ieri da quella d'oggi, ben più temibile al loro occhio perchè nel nostro tempo il mito è scomparso ed essi non possono vivere che in esso, e divide la fantasia dalla realtà, la fiaba del mito dalla vita quotidiana con i suoi squallori e privazione d'eroismi, un riparo dalla terribile consuetudine di stillante violenza del modus vivendi contemporaneo. Il loro occhio, al centro della fronte, esclude gli altri due. Ed è col terzo occhio, si dice, che si può vedere il futuro e il colore dell'alone che definisce la vera natura dell'individuo. Il di qua della barriera, secondo Bruzzi, è buio. Comunque non vi si scorgono gradevoli aloni di colore, a giudicare dall'espressione della enorme pupilla sbarrata. O forse, questi ciclopi, consci della loro diversità, non possono superare la barriera costruita dalla normalità? Si tratta di un'allegoria della condizione di diverso a cui è condannato l'artista solitario? Vi sono mille possibili chiavi di lettura per immagini ambigue come queste: e dall'ambiguità deriva gran parte del loro fascino. Né si può escludere che, in fondo, la magia capziosa di questi dipinti agisca perchè, come dice La Fontaine nella sesta fiaba del libro IX, <<L'homme est de glace aux vérités, il est de feu pour le mensonge>>.

Renzo Margonari
(Presentazione mostra personale "Galleria Comunale", Campobasso 1982)


Ciclope negro con feluca (1978, cm. 70x90, olio su tela).



Ulisse e Polifemo (1990, cm. 90x130, olio su tela).



Il dipinto Ulisse e Polifemo durante l'esecuzione nello studio di Giovanni Bruzzi in via dei Servi 32 a Firenze nel 1990; il modello in posa con in braccio il manichino è Diego, il figlio dell'artista (riconoscibile anche nel dipinto David e Golia del 1983).


Il ciclope Polifemo,(2004, cm.75x100, olio su tela).

UNA PERSONALISSIMA CIFRA DI EVOCAZIONE LIRICA

Si può plausibilmente affermare che la storia del ritratto coincide pressappoco con la storia dell'espressione figurativa, giacchè nessuna civiltà, capace di manifestazione artistica, è venuta meno a questo tipo di rappresentazione, essendo il genere, fra tutti, quello più implicato con la storia del costume e della società, legandosi alle credenze religiose ed ai riti che sono, per larga parte, all'origine dell'arte, alla mitizzazione dell'eroe e del potente di turno. Secondo una definizione canonica, infatti, il "ritratto" è la rappresentazione figurativa di una o più persone definite e riconoscibili. Tuttavia, non sempre la identificazione si attua attraverso la trascrizione realistica dei tratti fisionomici (come avviene per lo più nel "ritratto" occidentale dal Rinascimento all'Ottocento) o attraverso elementi esterni quali il costume, l'ambiente, particolari attributi relativi al personaggio (che hanno un ruolo fondamentale nel ritratto cosiddetto "idealizzato" o "immaginario", orientato soprattutto verso la resa di un "tipo"), ma attraverso la rappresentazione di fisionomie "arbitrarie", le quali, ancorchè ben caratterizzate, non si studiano di ripetere veristicamente i tratti somatici, né tantomeno la fisionomia, ma sono puramente indicative della persona cui si riferiscono. Ebbene, sin da una lettura d'acchito, ci pare che la serie di "ritratti" femminili che Giovanni Bruzzi offre alla nostra attenzione (e che si propone come l'unica costante tematica nel variegato mosaico della sua sensibilità pittorica, assumendone conseguentemente il ruolo di una interessante koiné espressiva) possa farsi risalire proprio all'ambito di quest'ultima tipologia figurativa, sembrandoci l'attenzione dell'artista prevalentemente rivolta più a prefigurarsi una simbologia di determinati valori etico-estetici che una pittografia di dati fisici: insomma, più a significare il "personaggio" che a rappresentarlo. Si tratta, comunque, di un complesso di opere che coprono un lungo periodo di tempo (1956-1988) e che, pertanto, denunciano una inevitabile "discontinuità" di stile, ma che ci danno, nello stesso tempo, la misura di una evoluzione artistica costantemente in progress, di un travaglio di scelte acquisizioni ed accantonamenti metodologici di una notevole importanza didattica per chi desideri accostarsi, sul piano ermaneutico, alla produzione del Nostro; a cominciare dalle fonti, che sono fonti inequivocabilmente classiche e per le quali la citazione di nomi come quelli di Raffaello, Bronzino, Ingres è addirittura d'obbligo. In realtà, è soprattutto al rigoroso purismo del maestro d'Oltralpe che l'esperienza di Bruzzi va, sotto certi aspetti, ricollegata. Come per Ingres, infatti, anche per Bruzzi il disegno non è mai astratto e schematico, ma rivela, in un'acuta e tesa sensibilità, una volontà espressiva solo apparentemente priva di emozioni, le quali si fanno invece intime e contenute nel senso del ritmo e della elezione formale. Il Nudo voltato del 1964, ad esempio, con la sua calma fattura, non smentisce di essere figlio del grande artista francese. Per esso anzi (inevitabile il richiamo al nudo di schiena della Grande baigneuse, così intoccabile nella sua purezza raffaellesca da spegnere ogni velleità sensuale), vien quasi voglia di invocare meno finitezza e bravura (magari un maggiore scarto di mano) che lo riportassero dal suo nitido algore ad una più confidenziale tiepidezza (alla realtà, infine, della vita terrena), anzichè tendere, come pare, a divenire una figura di sapore mitologico. A ben guardare, tuttavia, ci pare che proprio in quelle opere nelle quali può apparire che i modelli ispirativi risaltino con maggiore evidenza, sono presenti alcune delle soluzioni successive. Il colore tende ad uno smalto più vivo, i contrasti a diventare più crudi e piatti, l'ombra ad abolirsi per effetto di una luminosità assoluta, il disegno ad illimpidirsi ed a farsi meno sorvegliato. Pur restando fedele ad una visione plastica e volumetrica, specchio di una concezione unitaria ed architettonica della realtà, Bruzzi non dimostra più di avvertire il valore costruttivo della linea, ed anche quando ne marca la preminenza e la torsione, essa serve unicamente per serrare in zonature curve la larga timbratura dei colori puri. Inoltre, la fedeltà naturalistica in queste figure viene man mano accantonata. Si cerca piuttosto un rapporto speciosamente "allucinatorio" di spazi e di colori e se ne amplificano gli effetti rifiutando l'illusione della profondità prospettica e collocando le figure (o parti di esse) secondo un ritmo lineare e cromatico. L'ombra, la luce, il tono sono ormai cifre antiveriste. Le corrispondenze tra le forme ed i colori si rivelano ispirati da motivi razionali, oggettivi: una ispirazione pittorica che cerca di cogliere, tra colore e colore, assonanze geometriche. Il disegno traccia, perciò, arabeschi rigidi ed il colore si espande a riempire vuoti con il risultato di pezzature cromatiche a contrasti complementari. E' il momento, insomma, della concisione stilistica e la sinteticità dell'espressione ottiene effetto visionario, elementare, primitivo, violento nella sua simbologica allusione. Parallelamente acquista sempre più rilevanza una trasparenza strutturale di tipo "fotografico", come se la vocazione di Bruzzi, da una visione mediata, sia andata, lentamente e consapevolmente, specializzandosi in una rappresentazione immediata, com'è tipico appunto dell'approccio fotografico. D'altra parte, questa "serva della scienza e delle arti" (come aveva proposto Baudelaire, in una emarginazione che dura tuttora, a centocinquant'anni dalle prime esperienze e dopo un travolgente processo di sviluppo tecnologico che ha fatto della fotografia un irrinunciabile medium comunicativo ed informativo), era già entrata (e, non di rado, clandestinamente) nello studio di pittori come Corot, Courbet, Delacroix, Degas, Michetti, ecc., quale modello da ricalcare e trasferire a piacere sulla tela, con un suo codice specifico, influendo decisamente sul lavoro del pittore, indotto via via ad adeguarsi sotto gli stimoli dell'iconografia fotografica sempre più invadente: fino agli esiti metropolitani, iperrealistici ed antiutopistici della Pop Art, di cui Bruzzi mostra di apprezzare almeno la presa di coscienza, diretta ed immediata, del reale nella sua prima vitale proposizione. In tal senso, ci pare che il perno intorno al quale ruota tutto il lavoro di "ritrattista" di Bruzzi (e diciamo "ritrattista" ovviamente nell'accezione antispecifica descritta in limine) possa essere identificata col senso della immagine chiusa, persino stringata nei suoi valori di evidente plasticità, dove, con accenni di ricomposizione "astigmatica" della figura, la stessa sottigliezza del disegno e il forte risalto cromatico aiutano la solida essenzialità dei volumi. Si tratta sempre, come si è accennato, di un atteggiamento siglato da un forte sincretismo di influenze, da una notevole larghezza di suggestioni culturali, in cui però sorprende la capacità, da Bruzzi posseduta in sommo grado, di piegare complessi contributi figurativi ad una personalissima cifra di evocazione lirica, come sorprende il fatto che egli abbia saputo attingere ad una cultura figurativa persino contraddittoria (che va dai Quattrocentisti toscani ai grandi "ritrattisti" della Rinascenza), senza subire sbandamenti o deviazioni apprezzabili dai suoi ideali itinerari stilistici. Di tutti questi dati culturali, infatti, la sua memoria distilla, anzi ricrea, una immagine singolarissima, maturata in una libertà inventiva assoluta, di asciutta liricità che non impedisce anche una confessione sentimentale. Il suo algore stilistico, di cui abbiamo parlato, sembra anzi mitigato da una commozione affettuosa, da una sottilissima tristezza, da uno slancio verticale ed energico della linea che ha il potere di comunicare il senso di una tensione dolorosa, nei termini di un rifiuto d'ogni peso culturale e di un raccordo dell'immagine ad una coincidenza più intima e spontanea; ed anche quando la linea, così rigidamente musicale, così categorica nei tracciati dei profili curvi, sembra voglia rinverdire l'arabesco prezioso più raffinato non perde mai quel carattere energico di plasticità, di figura emergente, monumentale persino: quel senso, in definitiva, di volume pieno che domina ogni sua figura e che stabilisce anche il vero carattere della sua visione complessiva della realtà.

Pietro Civitareale
(Presentazione catalogo "Figure femminili", Edizioni Poesiarte, Firenze 1988)


Ragazza nuda seduta (1967, cm. 64x74, olio su tela).



Maternità (1968, cm. 50x60, olio su tela).



Donna che si spoglia (1969, cm. 40x60, olio su tela).



Gli occhiali rossi (1981, cm. 50x40, olio su tela).



Gli occhiali rosa,(1982, cm. 50x60, olio su tela).



Gli occhiali rossi,(1983, cm. 50x60, olio su tela).



Gli occhiali verdi,(1983, cm. 50x60, olio su tela).



Gli occhiali viola (1985, cm. 50x60, olio su tela).



Donna che si pettina (1982, cm. 70x90, olio su tela).


Locandina 1.



Locandina 2.



Locandina 3.



Locandina 4.



Jolly Joker (2000, cm. 70X80,olio su tela).